Il grido di Tära: “Canto la Palestina, l’arte è un manifesto contro la cancellazione”

Melodie arabe riempiono le stanze della casa di famiglia a Sant’Apollinare, in provincia di Frosinone, da quando è una bambina. Tära ha iniziato a scrivere le sue canzoni nella sua stanza a 16 anni. Musica che per lei doveva restare chiusa nel cassetto. Adorava le sue origini ma fuori, a scuola soprattutto, erano qualcosa da cui gli altri volevano prendere le distanze. A 21 anni ha deciso di mettere via la paura e diventare una voce per raccontare la sua cultura a chiunque sia disposto ad ascoltare. "Sono nata e cresciuta in Italia, in una famiglia in cui l’arte è sempre stata molto presente in varie forme. Ascoltavo cantare mia madre, ero circondata anche a livello visivo da arte. La cultura italiana è una cosa che ho assimilato dalla società, in casa si respirava un’aria molto più arabo-palestinese, a partire dalla musica che si ascoltava alla radio, le usanze come il cibo, il rituale del tè, la lingua. I miei genitori lavorano in ambito medico, sono venuti in Italia per motivi di studio. Parte della mia famiglia è in Palestina, parte si è rifugiata nel 1948 in Siria, in Giorgania ma la cosa bella che accomuna noi e, in generale, il popolo palestinese è che c’è sempre la forza di volontà di ricominciare. Non conosco un palestinese che non abbia ricostruito il suo mondo, il suo lavoro, la sua famiglia. Si sono ricostruiti sempre". Che reazioni ricevevi quando dicevi di essere palestinese? La reazione principale era ignoranza, nel senso di non sapere. In alcuni casi si traduceva in una genuina curiosità, in altri in cattiveria. Mi chiedevano spesso la differenza tra Giordania e Cis-giordania e alla mia spiegazione seguiva spesso un “Eh però…”. Però cosa se non conosci la storia? Poi ovviamente ci sono state anche occasioni di semplice razzismo, con insulti sulle mie origini. Quando hai deciso di pubblicare i tuoi pezzi? Durante il Covid ho avuto molto tempo da passare da sola e ho preso coraggio. Ho capito cosa volevo fare, la domanda successiva è stata: “Come faccio?”. All'inizio non è stato facile perché avrei sempre voluto mettere l'arabo nella mia musica, però avevo paura. Ho vissuto esperienze negative durante la crescita per il fatto di essere araba. Poi ho iniziato a pensare “Mi insulti perché sono araba? Sì, lo sono e va bene così”. Poi però ti fermi a riflettere e ti rendi conto che non tutti sono in grado di reagire in questo modo, questo mi ha spinto a fare quello che faccio oggi. Credo sia importante essere una rappresentanza del mondo arabo-palestinese. Quando ho scoperto Ghali, per me sentirgli pronunciare anche una sola parola in arabo mi faceva sentire rappresentata. Guardando indietro, se avessi avuto più esempi in cui riconoscermi in adolescenza sarei stata meglio. Questo mi ha portato a pubblicare i miei primi pezzi che erano in realtà bilingue. Il progetto è stato messo su carta nell’estate del 2022 e in un anno sono riuscita poi a far uscire le prime due canzoni in arabo, italiano e inglese che sono Evadere e Peace of mind. Come ti sei sentita dopo la pubblicazione? Paure non ne avevo più ormai. Non so perché ma ero uscita da quella bolla di paura. Il giudizio non mi preoccupava più e volevo trasmettere coraggio, fare qualcosa che avrebbe potuto stupire anche le persone più vicine a me, i miei genitori stessi. Far vedere che nonostante per anni abbia provato a nascondere questa mia parte, magari mi vergognavo a dire davvero da dove provenissi, volevo mostrare che in realtà ne vado fiera. Questo è il messaggio che avevo principalmente in testa. Perché testi in tre lingue? Per me la Palestina è casa, è sempre stata casa. Non è un concetto che noi scopriamo crescendo, il concetto di Palestina è sempre stato presente. Vorrei che la musica fosse un mezzo per conoscerla meglio. Il fatto che l’arte possa rappresentare una cultura è un grande manifesto contro la cancellazione. Lo faccio per tutti quelli che sono venuti prima di me e hanno contribuito affinché io oggi sia qui. Io devo a quella terra tutta la mia forza e devo evitare che venga spazzata via. Ti sei mai posta il problema che le parti in arabo potessero non arrivare a un pubblico che non parla la lingua? Mi è successo di sentire persone che non parlano arabo cantare i miei testi, è stato stranissimo ma non ho mai avuto paura di non arrivare perché ho sempre creduto che si possa arrivare a tutti attraverso l’emozione e l’essenza del brano. La lingua può essere una barriera che però si può abbattere attraverso l’emozione, l’essenza del brano, il tono di questo anche questa barriera, questo limite. In quale altro modo la tradizione entra nella tua musica? La Palestina è presente nei miei testi ma anche in quello che indosso. Mi piace molto unire all’esperienza uditiva anche l’arte visiva, inserisco molti elementi tipici nel modo in cui mi vesto. Sono io nella maggior parte dei casi a realizzare i vestiti. Mi piace integrare elementi degli abiti dei nostri antenati. Spesso ci sono gli ulivi, importantissimi nella nostra cultura perché simboleggiano la radice, un messaggio ripreso anche nella keffieh palestinese. Ci sono tre pattern: le foglie di ulivo, la rete da pesca, un’attività importante soprattutto in alcune zone della Palestina, e le rotte commerciali. Un’altra cosa che amo molto è l’arte del ricamo palestinese, la Tatreez. Le forme cucite a mano cambiano a seconda del villaggio in cui ci troviamo. È un forte simbolo di resistenza contro la cancellazione, le nostre nonne e le nostre bisnonne, durante la Nakba , portavano con sé quegli abiti ricamati come segno di esistenza dei loro villaggi ormai distrutti. Nella nostra generazione è cambiato il modo in cui si parla di Palestina dopo il 7 ottobre? Non so mai come vederla. Penso che sicuramente siano cambiate la comunicazione e la consapevolezza. Se ne parla in maniera più diffusa, è raro ormai menzionarla e trovarsi davanti qualcuno che non sa neanche di cosa si stia parlando. In un mio brano dico sempre che non è più una situazione invisibile, è sotto gli occhi di tutti e ormai sei tu a scegliere se vederla o no. C’è differenza tra la tua Palestina e quella dei tuoi genitori? L’idea di Palestina è la stessa, l’unica differenza è nel come uno la sente. I miei nonni, i miei genitori l’hanno vissuta e toccata, io l’ho esplorata solo attraverso i loro racconti. Penso che alla fine la frase che tutti ci ripetiamo in testa sia “Vorrei tornare, vorrei ricostruire la nostra casa, vorrei tanto finalmente un popolo libero e non costretto a soffrire in questa maniera”. Non trovo differenze sostanziali tra il mio legame con la Palestina e il loro. Mi viene da dire per fortuna perché entrambe le generazioni continuano a lottare e a far sentire il suo nome. Mi auguro che le prossime generazioni abbiamo un legame completamente diverso con lei. Il mio desiderio, il mio augurio, per la Palestina e per le prossime generazioni, è che abbiano la possibilità di viversi. Desidero una Palestina libera e se non potrò toccarla io con mano, che possano le prossime generazioni.