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Camisa, i detti e i non detti di una relazione sono Marea: il video

Musica

Il brano racconta che le storie d’amore sono come onde, arrivano, si infrangono e poi se ne vanno, lasciando la spiaggia deserta

IL VIDEO E' INTRODOTTO DA UN TESTO ORIGINALE DELL'ARTISTA

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Questa è la storia di Marea. Un singolo nato in un’estate che sembrava infinita, ma che, come tutte le maree, è destinata a ritirarsi. Le storie d’amore sono come onde, arrivano, si infrangono e poi se ne vanno, lasciando la spiaggia deserta. Ed è proprio in quella desolazione che spesso ci ritroviamo a contemplare ciò che è stato, quello che poteva essere, e quello che, in fondo, sapevamo che non sarebbe mai più tornato.

Il video di Marea è ambientato in una villa sulle colline di Bolgheri, un posto sospeso tra il mare e le vigne. Un luogo dove il tempo sembra rallentare, quasi fermarsi, perfetto per raccontare la calma apparente che precede e segue una tempesta. Mi vedete seduto sul bordo di una piscina, fumo una sigaretta e fisso il vuoto, ma in realtà sto guardando indietro, nella mia mente. Le immagini scorrono rapide come i flashback che ci sorprendono quando meno ce lo aspettiamo: una Bologna notturna, deserta, in piena estate. Le strade vuote sembrano amplificare il silenzio, mentre la città dorme, io mi aggiro come un fantasma, ripercorrendo i luoghi di un amore che ormai si è dissolto.

C’è un aneddoto che mi piace ricordare: durante le riprese del video, in quella villa, c'era un silenzio surreale. Solo il suono dell'acqua che lambiva il bordo della piscina e qualche cicala in lontananza. È stato in quel momento che ho capito davvero quanto una fine possa essere pacifica e allo stesso tempo straziante. Come una sigaretta che si consuma lentamente, lasciandoti solo con il sapore amaro del tabacco e il ricordo di un bacio che si è perso tra le onde del tempo. Marea è un pezzo che parla di quello che non ci si dice, delle parole non dette e di quelle che, una volta pronunciate, non possono essere ritirate. È la storia di una panchina d’estate, dove due ragazzi scrivevano il loro nome, convinti che quell’incisione avrebbe resistito per sempre. Ma come tutte le cose belle, anche quell’amore si è consumato sotto il sole, schiacciato dal traffico e dai rumori di una vita che va avanti, anche quando non siamo pronti a lasciarla scorrere. È malinconico, sì, ma anche un po’ menefreghista, come se, alla fine, accettassimo che certe maree sono fatte per allontanarsi, nonostante tutti i nostri tentativi di trattenerle.

Il testo racconta di una comunicazione impossibile, di quei momenti in cui, pur stando vicini, non ci si capisce più. La panchina diventa il simbolo di questo fallimento, un luogo dove ci si ritrova, ma anche dove ci si lascia. Le onde della marea arrivano, portano via le bugie e i ricordi, lasciando dietro di sé un silenzio che pesa come il traffico serale, come il tramonto che non aspetta nessuno. Mi piace pensare a Marea come a una sorta di accettazione. Sì, c’è malinconia, c’è il dolore di un addio, ma anche la consapevolezza che tutto ciò che se ne va, alla fine, lo fa per un motivo. È la penultima fase prima della speranza, quel momento in cui guardi indietro senza più rimpianti, sapendo che ciò che doveva accadere, è accaduto. E se cambi idea, forse tornerai. Lentamente, come la marea.