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Michele Gazich con Argon celebra Primo Levi nel 35mo anniversario della scomparsa

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Il brano fa parte dell'ultimo album, dedicato dall'artista proprio all’intellettuale piemontese, che così intitolò il primo racconto del suo libro Il sistema periodico

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Oggi 11 aprile, a 35 anni dalla scomparsa di Primo Levi, esce il video di “Argon”, il brano di Michele Gazich, title track del suo ultimo album, dedicato proprio all’intellettuale piemontese che così intitolò il primo racconto del suo libro “Il sistema periodico” (1975), autobiografia attraverso i 21 elementi della tavola periodica, che diventano spunto per brevi narrazioni autobiografiche. Nel racconto, Levi descrive i suoi antenati ebrei piemontesi, che vivevano, in un atteggiamento di dignitosa astensione, a margine della società per forza, ma anche per scelta. La scelta di questo tema è altamente metaforico: come nel racconto di Primo Levi, anche gli artisti spesso vivono a margine, tuttavia non sono mai marginali. “Il loro lavoro, spesso segreto – spiega Gazich - è fondamentale per la sopravvivenza del mondo, come l’altrettanto segreto e dimenticato lavoro delle api e dei lombrichi”.
 

Il videoclip stato è girato presso il Castello di Perno, nelle Langhe, in Piemonte, dove Primo Levi soggiornò più volte, ospite del suo editore Einaudi, allora proprietario del Castello. Einaudi ne aveva fatto quasi la seconda sede per la casa editrice: nella sala principale è ancora oggi presente un tavolo ovale gemello in via Biancamano, a Torino. Primo Levi frequentò il Castello proprio nel periodo della scrittura del racconto Argon: qui scrisse, qui si ritirò a pensare. Levi, pochi lo sanno, aveva l'abitudine di creare sculture di animali e figure immaginarie con il filo di rame, prodotto di scarto dell'industria chimica presso la quale aveva lavorato. Ne parla anche lo scrittore americano Philip Roth nella sua famosa intervista/dialogo con Levi. Gazich evoca tra le sue mani, quelle sculture, quel lavoro ancora più segreto e totalmente gratuito del grande scrittore: antitesi giocosa e serissima insieme al “lavoro che rende liberi” (Arbeit macht frei) dei campi di sterminio, lavoro pubblico, obbligatorio e drammaticamente ostentato.
 

Il clip è tutto un salire le scale del Castello, accompagnati dalle voce bardica di Gazich, dalla chitarra di Marco Lamberti, dai melismi orientaleggianti della cantante armena Rita Tekeyan e dal bouzouki di Giorgio Cordini, che ancora ad oriente, nel Mediterraneo. La presenza di Giorgio è preziosa: Cordini suonò bouzouki e chitarra al fianco di Fabrizio De André dal 1990 alla morte del grande cantautore. Anzi: insegnò a De André stesso a suonare il bouzouki, come ha raccontato più volte. La partecipazione al video, inoltre, suggella un’amicizia artistica con Michele Gazich di più di vent’anni. L’ascensione lungo le scale del Castello si fa alla fine estasi mistica e sensuale all’ingresso della voce di Rita Tekeyan, che salmòdia un canto ebraico della tradizione piemontese, preziosa reliquia vivente e risonante, incastonata a compimento della composizione di Gazich. Il canto è un'invocazione alla libertà da parte di chi è prigioniero.
 

Primo Levi, quando risiedeva al Castello, desiderava sempre andare a dormire nella camera all'ultimo piano, quella con il lucernario, perché voleva sempre vedere il cielo, per non sentirsi chiuso, prigioniero. Quel cielo sopra il Castello, dove, nel nostro video, si staglia la parola ebraica “vita” חי. La preghiera che conclude la composizione era in uso nella comunità ebraica piemontese, come testimoniato da Musiche della tradizione ebraica in Piemonte – Le registrazioni di Leo Levi (1954) a cura di Franco Segre, aEM Archivi di Etnomusicologia dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, squi[Libri], Roma 2015. È originariamente un componimento poetico di Shelomò Ibn Ghevirol (Malaga 1020 – Valencia 1058), poeta, teologo e filosofo spagnolo. Il suo nome romanzo è “Avicebron”.