Scomparso ieri, il boss camorrista è al centro di una delle canzoni più popolari e controverse del cantautore genovese: tra i due ci fu addirittura una breve corrispondenza
Come capita loro malgrado a molte figure della criminalità, anche Raffaele Cutolo, il boss fondatore della Nuova Camorra Organizzata scomparso ieri a 79 anni, occupava un posto nella cultura popolare italiana. A Cutolo quel posto lo aveva ritagliato Fabrizio De André in persona, in una delle sue canzoni più popolari e controverse.
Don Raffaè è la terza traccia dello splendido Le Nuvole, dodicesimo album di De André che nel 1990 ruppe un silenzio di sei anni dopo il successo mondiale di Crêuza de mä e contiene altri capolavori come la stessa title track o La domenica delle salme, testo tra i più polemici e sferzanti dell'intera produzione del cantautore genovese, che contiene un riferimento a un altro illustre detenuto di quegli anni, il fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio. Scritto con Massimo Bubola – con cui De André condivideva la passione per le commedie di Eduardo De Filippo come Il Sindaco del Rione Sanità, dove compare la figura del camorrista Don Antonio Barracano – e composto con Mauro Pagani, Don Raffaé è un monologo di Pasquale Cafiero, immaginario brigadiere del carcere di Poggioreale “dal Cinquantatré”, che racconta il suo rapporto ossequioso con un detenuto eccellente di cui si riporta solo il nome, Don Raffaé: questi, nonostante la sua condizione, vive nel privilegio e nella comodità e non ha problemi a elargire favori anche piuttosto comici (“Voi tenete un cappotto cammello/che al maxi-processo eravate 'o cchiù bello[...]pe' 'ste nozze vi prego, Eccellenza/mi prestasse pe' fare presenza”). In definitiva, una feroce satira sullo Stato che combatte la criminalità solamente di facciata (“si costerna s'indigna s'impegna/poi getta la spugna con gran dignità”, era la citazione quasi letterale di un discorso di Giovanni Spadolini dopo una strage mafiosa a Palermo) e sulla natura umana, portata a cercare favori e amicizie dai “potenti”, qualunque sia l'origine del loro potere. Così il brigadiere Cafiero è totalmente asservito a Don Raffaé, che gli offre la sua visione del mondo (“mi spiega che penso e bevimm' 'o cafè”) come fosse un professore: una figura ispirata a quella di Vito Cacace, protagonista del romanzo Gli alunni del tempo di Giuseppe Marotta, ma naturalmente ricca di riferimenti alla cronaca e all'attualità, a cominciare dal già citato “maxi-processo”. Musicalmente è una tarantella cantata in napoletano (che si era già cimentato con il dialetto nel ritornello di Avventura a Durango, contenuta nell'album Rimini) con riferimento esplicito a 'O cafè di Domenico Modugno.
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La citazione di Cutolo (inappropriato chiamarlo “omaggio”, anche se ci fu persino qualcuno che accusò De André di simpatizzare per la camorra) portò addirittura a un breve carteggio tra i due, interrotto dal cantautore dopo la seconda lettera del boss che inviò al cantante alcune poesie (“Non erano affatto male”) e si congratulò per la canzone, in un certo senso confermando il suo trattamento privilegiato all'interno del carcere dell'Asinara: “Non capisco come abbia fatto a cogliere la mia personalità e la mia situazione in carcere senza avermi mai incontrato”, svelò De André nel 1997 in una chiacchierata con Mario Luzzatto Fegiz del Corriere della Sera. L'anno dopo, in una tappa in Calabria del suo tour, il cantautore tornò provocatoriamente sul senso della canzone, sulla malavita che si sostituisce allo Stato anche nel sostegno economico ai cittadini: “E' un terribile dato di fatto che in Italia mi pare ci sia il 12,5% di disoccupazione, ma se non ci fossero camorra, mafia e 'ndrangheta probabilmente saremmo al 25%. L'Italia si sta immafiosendo, ma non sono il primo a dirlo: lo affermava già Sciascia vent'anni fa”. Tra le tante versioni realizzate da moltissimi artisti nei trent'anni successivi, la migliore è probabilmente questo duetto con Roberto Murolo, eseguito per la prima volta al Concerto del Primo Maggio 1992.