Trent'anni di Pulp Fiction: perché è un cult oggi più che mai

Trent’anni fa, al cinema, arrivava Pulp Fiction, il secondo film diretto e scritto da Quentin Tarantino. Era, per certi versi, un’espansione de Le Iene: l’idea stessa di continuare a vestire i protagonisti con giacca e cravatta nere e di avvolgerli in uno strato di mistero permetteva a Tarantino di accennare, senza per questo confermarla del tutto, alla possibilità di un universo narrativo più ampio, in cui le varie storie e i vari personaggi potessero convivere. Era un film estremamente maturo e consapevole, costruito e sviluppato con un’idea precisa in mente, e il successo di critica e di pubblico che lo accolse lo trasformò in un vero e proprio punto di rottura per il cinema indipendente americano. Per citare qualche numero: costò “solo” 8.5 milioni di dollari e riuscì a incassare al box office più di 100 milioni di dollari. In molti, oggi, provano a replicare questa stessa formula: film che costano poco ma con aspettative, e speranze, molto elevate. Dai tre corti ai 154 minuti All’inizio, Pulp Fiction doveva essere un’antologia di tre corti, non un solo film: il primo corto doveva essere diretto da Quentin Tarantino ; il secondo da Roger Avary, che ha collaborato alla scrittura e al soggetto della versione finale di Pulp Ficion; e il terzo da Adam Rifkin. Il cortometraggio di Avary, Pandemonium Reigns, ha fatto da base per Pulp Fiction ed è su parte di quella sceneggiatura che Tarantino e lo stesso Avary hanno lavorato quando sono andati ad Amsterdam, più di trent’anni fa, per finire il copione. . Anche produttivamente la storia di Pulp Fiction è interessante: Danny DeVito, produttore esecutivo, ha accettato di svilupparlo e di finanziarlo prima ancora di avere qualcosa di concreto tra le mani, convinto unicamente da Tarantino e dalle sue parole durante un incontro. Quando, mesi dopo, si decise a ricontattarlo per chiedergli novità sulla sceneggiatura, gli venne consegnata a casa una copia: 155 pagine che, se trasposte una ad una, sarebbero diventate un film di 154 minuti . E se lo avesse interpretato Daniel Day-Lewis? Harvey Weinstein, presidente della Miramax, una delle società che hanno prodotto Pulp Fiction, chiese che il ruolo del protagonista venisse dato a Daniel Day-Lewis, neo vincitore dell’Oscar come miglior attore per la sua interpretazione ne Il mio piede sinistro. Tarantino, però, aveva già scelto: John Travolta. E nonostante la reazione scomposta di Weinsten raccontata in molteplici occasioni da DeVito, alla fine si decise di seguire, in tutto e per tutto, anche nel taglio finale, la visione del regista. Travolta si disse semplicemente entusiasta dell’opportunità di poter partecipare a un film del genere dopo anni di magra. Il suo ultimo successo commerciale, prima di Pulp Fiction, era stato Senti chi parla. Samuel L. Jackson, in un primo momento, non era stato scelto: quando il suo agente venne avvisato della cosa, chiese di dare un’altra possibilità a Jackson, che si presentò al provino non sapendo di essere sotto esame – era convinto, invece, di essere lì per la lettura del copione. Andò benissimo. Bruce Willis, invece, era un fan di Tarantino: quando lui e il regista si incontrarono, recitò quasi a memoria Le Iene. Fino alla fine, fino a poco prima del suo esordio e della sua proiezione a Cannes, dove vinse la Palma d’Oro, non c’era nessuna certezza su Pulp Fiction: forse era troppo violento; forse la storia, che non aveva un andamento lineare e che andava continuamente avanti e indietro, da una situazione all’altra, non era abbastanza chiara. Invece, come sappiamo, fu un trionfo. Prima di Pulp Fiction, grazie al successo de Le Iene, Tarantino avrebbe potuto girare qualunque altra cosa. Aveva ricevuto diverse offerte da diverse case di produzione. E invece decise di seguire questa idea, perché ne era rimasto semplicemente folgorato. La sua era diventata un’ossessione e la cura che ebbe nella scrittura e nella costruzione dei singoli momenti, così ricchi di dettagli, così – per certi versi – disturbanti, ne è una dimostrazione. Ancora una volta, Tarantino prendeva il genere gangster e lo stravolgeva. In parte cambiandolo e in parte restituendogli la sua gloria passata. Il senso del Pulp In alcune scene, Tarantino è quasi eccessivo: aggiunge dettagli su dettagli; le riempie di fiumi di parole, e si concentra su scambi che non hanno quasi nessun valore all’interno del racconto – servono solo, e non è sicuramente poco, per dare una profondità ulteriore ai personaggi che le pronunciano. In altre scene, invece, Tarantino è stitico di particolari: viene aperta una valigetta che tutti vogliono, che tutti cercano, e non ci viene mai detto qual è il suo contenuto. È l’espressività degli attori, in questo caso, che fa da guida allo spettatore, dicendogli – o almeno suggerendogli – che cosa aspettarsi. Dopo trent’anni, Pulp Fiction è diventato un vero e proprio cult: citato, ripreso, imitato. Gli spettatori conoscono a memoria intere sequenze, come il monologo di Samuel L. Jackson o la scena del ballo con John Travolta e Uma Thurman . E lo stesso termine “pulp”, all’interno del cinema, ha avuto una nuova vita: pulp nel senso di eccessivo, di ritmato, di esplosivo, di improvviso; pulp nel senso di “tarantiniano”.

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