Adriano Giannini: “Io, un solitario di cui ci si può fidare”

Per molti anni, Adriano Giannini non aveva nemmeno pensato di fare l’attore. Era entrato nel mondo del cinema un po’ per caso, da operatore, in un film diretto dalla madre. Il passaggio davanti alla macchina da presa, però, ce l’aveva scritto nel sangue. Cresciuto in un contesto in cui il cinema era vita quotidiana, Giannini si è ritrovato altrettanto per caso a ripercorrere le orme del padre recitando nel suo stesso ruolo nel remake di un film iconico, “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”. Anche qui un fatto di coincidenze e serendipità, quello che lo ha portato a recitare al fianco di Madonna diretto da Guy Ritchie, come ha raccontato nella lunga intervista concessa a Stories, il ciclo di incontri con i grandi dello spettacolo di Sky TG24. Un’intervista che, come spesso capita, parte dal presente per poi addentrarsi nel passato. Il tuo ultimo film è “Breve storia d'amore”, di Ludovica Rampoldi, all’esordio dietro la macchina da presa. Raccontaci tu la storia. È la storia di due coppie: io sono sposato con Valeria Golino, che è stata la mia psicanalista, e questo già ci fa capire che il mio è un personaggio non proprio centrato fin dall'inizio, poi c’è una coppia più giovane che è quella di Pilar Fogliati, il cui personaggio entrerà nel mio mondo e mano a mano anche in quello della coppia, con degli intrecci abbastanza particolari. La cosa secondo me più interessante di questo film, che già si intravedeva e si capiva dalla sceneggiatura, è questa diversità di generi, un tentativo di portare sul grande schermo una storia che è un po' commedia, un po' thriller, un po' storia d'amore; registri molto diversi che dovevano parlare insieme. È un’opera molto complessa. Il motore immobile però è l'amore o le varie sfaccettature dell'amore. Il motore è sempre l'amore o la ricerca dell'amore o l'incapacità dell'amore. Sì, in questo film lo è. Ogni personaggio farà un percorso che lo porterà a rimettere in discussione il concetto di amore. Inizia con una sfida a chess boxing, che è un gioco che unisce gli scacchi e la boxe. Il mio personaggio viene presentato così proprio perché non è centratissimo. Fa questo sport che alterna un round di scacchi a un round di pugilato, fino a che non si arriva allo scacco matto o al ko. Immaginati iniziare a giocare a scacchi, fare tre minuti di pugilato e poi levarsi il caschetto e tornare a cercare di ragionare sulle strategie scacchistiche. C'è anche un po' il tema del dell'ossessione, della vendetta, di una storia in cui ci si tradisce ma ci si ritrova anche. Però è vero che c'è un po' anche una ricerca dei singoli personaggi, no? C'è assolutamente una ricerca che passa attraverso la paura, lo sgomento della perdita dell'altro. Dall’inizio alla fine c'è un un'evoluzione del concetto di coppia e dell'amore in tutti i personaggi. Ti riporto adesso indietro a casa Giannini, quella da bambino. Dove siamo, chi c'era, com'era fatta la casa? C’ero io, mio padre c'era poco perché poi i miei si sono separati quando avevo uno o due anni. Io sono del ‘71, erano gli anni di massima notorietà e lavoro per lui. Non ho colto bene il momento della separazione perché pure prima non è che ci fosse tanto, era sempre a lavorare. C'era mia madre che aveva smesso di fare l'attrice per diventare una doppiatrice molto importante. Ci sono stati dei cani, più di uno. Nel corso della mia vita ci sono sempre stati dei cani. Che bambino eri? Per quello che mi ricordo, o più che altro mi è stato raccontato, fin da piccolo ero molto solitario e taciturno, cosa che poi è rimasta un po' nella vita. Non so se ero pigro o indolente, mia madre mi raccontava sempre che ero velocissimo a muovermi a quattro zampe e quindi non mi andava di alzarmi in piedi perché trovavo molto più comodo e stabile muoversi così anche a un'età più avanzata, quando già avrei dovuto camminare. Mi muovevo a quattro zampe, mi alzavo in piedi, facevo le cose e poi mi rimettevo a quattro zampe e me ne andavo. Ero il secondo figlio, quindi mia madre aveva in qualche modo imparato ad anticipare il volere di un bambino piccolo fin dalla culla, e avevo un ritardo anche nel parlare: mi bastavano dei mugugni e mia madre capiva che dovevo mangiare o fare la pipì o la cacca. A un certo punto si è sospettato un ritardo, poi però mi sono messo in piedi e ho incominciato a parlare. Ma è vero che una volta all'ennesima domanda sul tuo papà hai rovesciato addosso a un giornalista un piatto di maccheroni? Motivo per cui io non ti sto chiedendo naturalmente niente... È vero ma è stato riportato come se fosse una cosa recente. Invece avevo tre o quattro anni, ero in un posto di vacanza, credo in Sardegna, e tutti mi parlavano di mio padre, mi toccavano le guance. Io in realtà mio padre lo vedevo poco, e mi chiedevo “ma chi sei tu che mi chiedi queste cose?”. E allora una volta ho tirato dei maccheroni col sugo addosso a un giornalista. E alle superiori, che studente eri? Un disastro. Andavo in giro col motorino, con gli amici. Ho pure fatto quelle scuole che ti facevano recuperare due anni in uno, perché mi avevano bocciato, però alla fine ce l'hai fatta. Il primo amore, quello adolescenziale, magari quello non ricambiato? È stato proprio in quel posto dove ho tirato i maccheroni al giornalista, in Sardegna, sempre più o meno quell'età. Io mi innamoravo follemente a quattro o cinque anni, mi veniva la febbre. Eravamo in un residence in Sardegna e c'era la casetta dove sapevo che lei stava. Ma ti ricordi come si chiamava? Certo, si chiamava Chiara. Mi ricordo tutto. In “Travolti dal destino” di Guy Ritchie hai lavorato con Madonna? Com'è stato? Abbiamo lavorato tanto e anche bene. Il risultato non è stato dei migliori, però farlo è stato molto divertente, un'operazione assurda per quello che riguardava me: avevo fatto un film che non era uscito, non esistevo nel mondo del cinema, magari si trovavano online i miei curriculum da operatore, ma da attore non c'era niente. Sono finito a fare questo film in inglese, che tra l'altro aveva fatto mio padre, che era un cult famoso in tutto il mondo, di Lina Wertmüller e con Mariangela Melato, farlo con una star come Madonna e il marito che in quel periodo era fra i cinque giovani registi più voluti al mondo... E quindi come ti hanno scelto? Con dei provini che facevano in tutto il mondo. Anche lì una storia assurda perché io ho saputo dopo che cercavano un trentenne più o meno simile all'originale, cioè mio padre, e l'hanno cercato in tutto il mondo: Cuba, Messico, New York, Spagna, Italia… Sono andato a fare questo provino, in fila in mezzo a tanti attori italiani che conosciamo, nessuno sapeva niente se non che era un film con Madonna, li vedevo soltanto uscire un po' mesti, tutti quanti quasi umiliati e dicevo: “Cavolo, che succede là dentro?”. Poi sono entrato, mi hanno dato questi fogli, mi hanno detto levati la maglietta, me la sono tolta e ho cominciato a leggere. Il film è molto, molto simile all'originale, anche nei dialoghi, e in quel caso dovevo leggere proprio la traduzione di un paio di scene che sapevo a memoria. Da bambino, a due, tre anni, o ero stato sul set in Sardegna, lo stesso dove noi abbiamo poi girato molti anni dopo. Quando ho letto i dialoghi ho capito che cos'era, loro non sapevano chi io fossi, e ho pensato: “Ma questi mi stanno prendendo in giro”, pensavo fosse una candid camera, leggevo un foglio e poi lo tiravo perché mi veniva da ridere. E questi mi guardavano tutti così, attentissimi, poi mi hanno detto “ciao”, io sono uscito e la sera partivo per il mare perché era luglio, ma mi ha chiamato Guy Ritchie e mi ha detto: “Vieni a Londra domani a fare un provino con Madonna?”. Pensavo ancora fosse uno scherzo e gli ho detto: “Sì, e chi c'è Prince che ci fa la colonna sonora mentre noi facciamo il provino?”. Poi però ho preparato un testo che lui mi aveva detto di fare, sono andato a Londra e ho incontrato Madonna, abbiamo fatto un provino bruttissimo anche perché in quelle 24 ore mi ero preparato qualcosa che a Ritchie non piaceva e mi ha fatto fare altro… Come operatore eri già nel mondo del cinema. Come hai iniziato? Nel 1989, finito il liceo, non avevo nessuna idea di che cosa sarebbe stato il mio futuro e non avevo neanche grandi desideri, sapevo solo che non volevo perdere tempo. Pensavo di andare in America a fare il cameriere e imparare l'inglese. Poi successe che mia madre scrisse un film e un produttore, che era Roberto Cicutto, le disse di dirigerlo lei. Era settembre, avevo appena finito le vacanze e le chiesi se potevo fare qualsiasi cosa per guadagnare qualche lira, per essere indipendente e partire. Mancava un aiuto operatore e così andai prima a capire un po' le macchine da presa e poi iniziai questo film dove mi pagarono poco. Però mi piacque questa esperienza cinematografica e subito dopo mi chiamarono per fare un altro film gratis, tre mesi senza essere pagato. Poi gavetta dura che però è stata una grande scuola e dopo un po' ho incominciato a guadagnare, a fare altri film. Ho fatto quel lavoro per fortuna con tanti registi e direttori della fotografia. A proposito di tanti registi, hai lavorato con Ermanno Olmi, con Tornatore… Ma con chi è scattata la miccia che ti ha portato a pensare “voglio stare dall'altra parte?” Lo ricordo perfettamente: su un film di Tornatore che si chiama “Una pura formalità”. Ci ero arrivato che era già iniziato da un po' grazie a un mio amico macchinista. Un film tra l'altro complicatissimo tecnicamente. Un giorno mi trovai a fare un primo piano a Depardieu e mi ricordo che dovevo mettere a fuoco e rimasi incantato a guardarlo quasi scordandomi il mio lavoro. Così incominciai ad appassionarmi a quello che accadeva davanti alla macchina da presa, non più come tecnico ma concentrato sui contenuti artistici e creativi. In “Le conseguenze dell'amore” hai conosciuto un Paolo Sorrentino ancora giovane. Come era? Molto simile a come è adesso. Mi ricordo che per questo film venne a trovarmi col produttore Nicola Giuliano mentre io stavo girando a Napoli coi fratelli Taviani una serie molto ricca, in cui facevo un principe. Io di Paolo avevo visto il primo film, “L'uomo in più”, già lo ammiravo, pensavo fosse un genio. Mi faceva sorridere, ero anche un po' in imbarazzo perché gli dissi subito: “Non voglio neanche leggerlo, vengo, dimmi che devo fare e vengo”. E così fu. Paolo non volle che io e Toni provassimo insieme. Credo che Toni avesse provato con tutti gli altri attori ma a noi disse: “Voi due non provate, meglio che non proviate, vi vedete lì e fate voi”. Sul set capii immediatamente le sue capacità e l'attenzione con cui raccontava, l'originalità del suo linguaggio filmico. E con Toni, che non conoscevo, mi trovai subito a fare queste scene e anche lì rimasi sorpreso dall’intelligenza e dall’istinto che aveva verso la macchina da presa. Ricordo proprio che gli chiesi: “Com'è che fai queste cose che molti attori fanno dopo trent'anni di cinema?”. Sei anche doppiatore e il doppiaggio è una cosa di famiglia per te. L'arte del doppiaggio è un lavoro complesso che io ho affrontato con molta umiltà, credo, perché mi veniva suggerito dai miei genitori. All'inizio, quando ho cambiato vita da operatore ad attore, ho fatto prima una scuola di teatro, però mi veniva detto vai a fare il doppiaggio che è palestra, è pratica. Perché in parte, è vero, devi comunque recitare. Ci sono tecniche diverse, vizi che si possono prendere che sono in contrasto con la recitazione, però comunque uno si trova davanti a un microfono, deve pensare, recitare, fare delle cose, magari ha anche la possibilità di studiare gli attori che doppia, perché in pochissimo tempo deve restituire quello che un attore, meglio se bravo, ha pensato per mesi. I miei primi tentativi, dopo aver fatto una scuola, erano assolutamente imbarazzanti: hai più tensione, non riesci a seguire, da un orecchio devi ascoltare, devi leggere, guardare l'attore, respirare, recitare; devi fare cinque cose insieme, andare a sincrono, ma più che altro la cosa più difficile poi è recitare, potersi esprimere. All'inizio io non riuscivo, tornavo a casa e davo le testate sul muro, piangevo e mi chiedevo: “Perché ci sono andato?”. Non è che ho incominciato a doppiare da ragazzino, come magari è successo a tanti, ho iniziato quando ho deciso di fare l'attore. Il mio primo lavoro al doppiaggio è stato su “Traffic”, facevo un brusio, che in gergo sono le voci fuori campo. Dovevo fare uno che entrava dietro, non mi ricordo, forse Benicio del Toro, dovevo dire “mi dà un caffè per favore” e non mi veniva, mi veniva una voce stridula con tutti quelli che mi guardavano, e pensavano: “È arrivato questo, è pure figlio di, neanche sa dire ‘un caffè’”. Tornai a casa umiliato, con le orecchie basse da Dumbo, ma poi poi con tenacia ci sono riuscito. Però a un certo punto ho preso confidenza e sono stato scelto da Almodovar su un film che si chiamava “La mala educación”, il primo film che ho fatto come attore protagonista o coprotagonista, e da lì mi sono trovato meglio. Hai recitato diverse volte con Valeria Golino, avete fatto tre o quattro film insieme. A me sembra di averne fatti 40, perché siamo molto amici. E poi lei è una è una donna di grande empatia, con la capacità di legare tutti sul set, è una grande anima artistica. Hai fatto “In Treatment”, una stagione, in cui hai interpretato il ruolo di un uomo tradito. Era come stare dallo psicologo, immagino. Come è stato? Ho fatto due stagioni con Barbara Bobulova, ed è stata un'esperienza assolutamente incredibile perché credo che non capiti mai, nella vita di un attore, di poter stare tutto quel tempo su un divano. Facevamo praticamente un ciak che durava 30 minuti, e il cinema è fatto di piccoli tagli, di piccole scene messe insieme. Invece lì, siccome tutto avveniva nello stesso momento, quello che giustamente voleva il regista Saverio Costanzo era lasciare che il tempo scorresse come fosse veramente uno spettacolo teatrale. Però a teatro ci si prepara, si studia, si fanno le prove. Noi lì ci siamo visti una volta e poi siamo andati in scena, e non sapevamo che cosa avrebbe fatto l'altro. Insomma, è un'impresa attoriale abbastanza difficile da un certo punto di vista, perché tenere 30 minuti in primo piano non è semplice, la tensione, l'adrenalina che tu hai quando reciti regge per un minuto, due minuti, tre, quattro o cinque minuti, dopo senti che l’energia cala. E invece una cosa così la devi sostenere, quindi devi usare una tecnica per farlo. In “Adagio” di Stefano Sollima sei un padre di famiglia, cattivo ma non del tutto. Grosso. Ero ingrassato tanto. Io sono un tipo che non ingrassa facilmente, anche se mangio, di quelli che vengono odiati sempre un po’ da tutti. Noi avremmo dovuto iniziare a girare a settembre e Stefano mi disse a fine agosto che il personaggio lo avrebbe voluto grosso. E io ho pensato: “Faccio un po’ di pesi in palestra”, ma lui mi ha risposto che lo voleva proprio con la pancia. Agosto tra l'altro non è il momento migliore per ingrassare perché fa pure caldo, come fai? E che cosa hai mangiato? Tutto. Infatti credo di essermi procurato dei danni al pancreas irreversibili. Grassi, zuccheri, mangiavo biscotti la notte. Ora non lo farei più perché poi veramente ci ho messo tanto. Un conto se lo fai a trent'anni, se lo fai dopo i 50 non va bene, però ero entrato in quel trip del dover portare al regista il risultato e ho preso otto, nove chili, quasi dieci. Il personaggio è molto molto bello, un personaggio essenzialmente cattivo, che serviva a dare ritmo alla storia, il coprotagonista che inseguiva, però era importantissimo dargli un aspetto empatico e questo si riusciva a farlo solo attraverso i figli. Sembra un Terminator ferito, un cane rabbioso, però poi capisci che in realtà lo fa per i figli e questo gli dà una sua umanità. Hai lavorato con Stefano Sollima anche in “Achab”. Anche qui il tuo personaggio è sospeso tra la volontà di fare il bene e ritrovarsi in qualche modo costretto a fare il male. Meno male vuol dire che c'è un percorso. Il lato del bene e del male che si vanno a confondere era un po' la chiave di questo personaggio che voleva portare all'interno della celere un pensiero più liberale, più democratico, più giusto e però poi veniva fatto qualcosa a sua figlia e quindi questa sua visione del bene veniva messa a dura prova e intraprendeva anche lui la strada del male in maniera molto conflittuale. In “Super Sex”, la serie liberamente ispirata alla vita di Rocco Siffredi, hai recitato accanto ad Alessandro Borghi interpretando un personaggio molto sfaccettato, non positivo, ma che ha anche una sua profondità? Un personaggio che sulla carta era molto complesso, infatti io quasi non volevo farlo perché mi sembrava troppo, in ogni scena. In una scena era Romeo, in quella dopo era Macbeth, poi era Amleto e poi era Riccardo III. È un personaggio negativo ma alla fine credo che in realtà in quella serie sia il personaggio che sente più di tutti, che poi si trasforma, si elabora in azioni sbagliate, in pensieri sbagliati, in ossessioni, in paure. Però è quasi l'unico di quella serie che è che ha un sentire puro. Puoi rivivere un intenso momento di felicità, quale sceglieresti? Me n’è venuto in mente uno ma non so perché, dal momento che non fa parte dei miei pensieri di felicità. Ero un ragazzino di 12, 13 anni, e in famiglia si usava andare in Inghilterra per imparare un po' l'inglese. Lì si va molto a cavallo e a me piaceva. Ne avevo uno che si chiamava Silver, che era sempre il mio, facevamo delle passeggiate nelle lande inglesi bellissime e una volta riuscii a uscire un po' dal gruppo per farmi una galoppata da solo, scappando, creando un disagio perché poi mi cercarono. Però quella sensazione di libertà è quello che mi è venuto in mente adesso. Cosa pensi che gli altri dicano di te? Penso che dicano che sono un po' un solitario, uno che sta per i fatti suoi, però di cui ci si può fidare. E che cosa ti piacerebbe che gli altri dicessero? Esattamente questo. Hai scaramanzie? Ce l'avevo, l'ho persa un po' negli ultimi tempi. Il primo giorno di set mi mettevo un costume, uno Speedo di una taglia più stretto, per sentirmi più al sicuro. La tua paura più grande? La morte. Ma tu l'hai mai immaginato il tuo funerale? No. Cioè, non ci hai mai pensato? Forse sì, qualche volta sì, ma non tanto. Non mi fa più paura la morte come concetto di infinito, di spazio. Come anche guardare il cielo di notte: a me piace per 5 secondi, poi dopo un po' tutto quello che è così lontano, infinito, e non ha tempo e spazio mi intreccia il pensiero. Quindi mi giro e torno alla realtà. Hai scritto un libro di favole, “Piro il Girasole”. Come ti è venuto in mente? L'ho scritto durante la pandemia di Covid e ne ho scritte anche altre due, vediamo se le riesco a pubblicare. Questa storia mi è venuta in mente molti anni fa, mentre giravo in macchina, non mi ricordo dove, fra il Lazio e la Toscana, da solo con un cane. Era giugno o luglio e a un certo punto ho trovato questo campo di girasoli immenso, mi sono soffermato a guardarli e ho pensato: “Tutti seguono il sole dall'alba al tramonto, tutti vedono la nuca dell'altro girasole, non si sono mai visti e non sanno quanto sono belli. E quindi che succede se questi due girasoli incontrano il loro sguardo e sono Romeo e Giulietta che si innamorano? Cosa farà lui per lei? Andrà contro la grande legge dei Girasoli e quindi non seguirà il sole per rivederla tramonto?”. Ma c'era una favola che ti raccontavano da bambino? No, c'erano molte favole che mi leggevano. Non ne ricordo una in particolare, c'era molto Calvino, Rodari. Evidentemente me le leggevano bene, tra mio padre e mia madre. Ti chiedo di finire una frase: vorrei essere più? O meno? Allora vorrei essere meno egoista. O meno mediocre. Tutti abbiamo le nostre mediocrità.

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Adriano Giannini: “Io, un solitario di cui ci si può fidare”

Omar Schillaci