Pierfrancesco Favino: “Sogniamo in 16:9 perché esiste il cinema”

Pierfrancesco Favino è da anni uno dei volti più riconoscibili del cinema italiano. Un volto capace di trasfigurarsi e diventare altro, un attore che ha interpretato una vasta gamma di ruoli, che è stato Craxi e Buscetta, il “Libanese” e il “Cammello”. Un mestiere che ha saputo di voler fare da quando aveva 7 anni, come ha raccontato a Stories, il ciclo di interviste ai personaggi dello spettacolo di Sky TG24, e nel quale non è stato semplice sfondare perché “a vent'anni avevo già la faccia del trentenne”. “Il maestro” di Andrea Di Stefano è il tuo ultimo film, racconta tu la storia. È la storia di un bambino con un papà che lo vuole campione e lo mette, nell’estate del 1989, nelle mani di un maestro, di un ex professionista che si propone attraverso una rivista. Così partono per quella che dovrebbe essere la sequela di tornei da affrontare per passare dai regionali ai nazionali e diciamo che, invece che delle vittorie sul campo da tennis, arriveranno vittorie nel campo della vita. Tu sei Raul Gatti. Chi è? È un guascone, uno che vive la vita a morsi, che ama la vita, una persona che probabilmente non pensa né al futuro né al passato, che vive un po' di espedienti, che sa fare una cosa sola, giocare a tennis: è stato agli ottavi di finale degli Internazionali d'Italia e deve in qualche modo rimettere a posto la sua vita. Incontrando questo ragazzo trova il modo di guardarsi dentro e di far guardare dentro a questo ragazzo in una maniera molto accidentale. Sono una strana coppia, diciamo. Parafrasando Mourinho, allenatore a te caro, chi sa solo di tennis non sa nulla di tennis. Probabilmente perché questo è un film che non parla di tennis, ma di vita. Sì. Andrea di Stefano è stato un ottimo giocatore, un buon giocatore di belle speranze, è la sua storia e non è a caso che ha scelto questa vicenda e il tennis. Ha scritto questa sceneggiatura nel 2006, era la sua prima sceneggiatura, realizzata quando non c'erano numeri uno in Italia, con l’idea di parlare del tennis che non si vede, quello dei circoli, delle speranze, soprattutto all'epoca, delle aspettative degli altri su di te, in un mondo in cui comunque è vero che in campo sei solo e fai sempre la guerra con te stesso accompagnato dalla persona che meno sarebbe in grado di darti indicazioni. Un maestro sicuramente imperfetto. Questo ragazzo farà un percorso e permetterà a quest'uomo di fare un percorso diverso. Il tennis diventa quasi la metafora di quello che può essere questo viaggio. Tiziano Menichelli è bravissimo, ma è vero che nei casting cercavano un ragazzo che sapesse anche giocare a tennis? Sì, ma lui non lo sapeva fare. Quindi ha mentito? No, non ha mentito. Diciamo che il suo sport principale è il surf ma è un grande sportivo, per cui da quel momento in poi si è messo sul campo e ha iniziato a giocare. E ha continuato. Per tutta la durata del film ha avuto un maestro che l'ha seguito e Andrea è stato sia il suo che il mio maestro. Ha corretto tutto quello che non riuscivamo a fare per bene. È stato un severissimo maestro, un amico e un grande regista. Sapevamo che ci poteva correggere e portare sulla buona strada. Una delle cose belle de “Il maestro” è che si prova una profonda empatia per entrambi questi personaggi e soprattutto per le loro fragilità. Andrea dice una cosa molto bella: è la storia di due perdenti che trovano una vittoria non nel campo su cui si erano prefissati di trovarla. Ed è vero. E in un momento come questo, in cui comunque sembra che non puoi stare al mondo se non sei numero 1, raccontare la storia di due imperfetti che comunque dimostrano che vanno bene per stare al mondo con le loro imperfezioni, con le loro ammaccature, con le loro differenze, mi sembra una bellissima cosa. Fa ovviamente riferimento alle nostre grandi commedie, voleva essere un omaggio, fa tutto questo ridendo anche un po' di loro, delle loro storture, ed emozionando un po' rispetto alle loro difficoltà. A proposito di maestri, se dovessi chiedere chi è stato il tuo maestro? Non ne ho avuto uno ma diversi. È la fortuna di incontrare dei veri e propri maestri, dall'Accademia fino alle persone con cui lavoro in questo film. Qui il mio maestro, oltre Andrea, è stato Tiziano: si sono create delle situazioni che senza di lui non sarebbe stato possibile che si creassero. Ed è molto bello questo. Io sono molto contento quando lavoro con i ragazzi, un anno fa avevo fatto un film con due bambini. Avevo 35 anni di lavoro alle spalle e andare sul set con qualcuno che sta iniziando è molto bello. Ma a tennis alla fine come sei messo? Io amo moltissimo il tennis, il tennis mi stima. È un amore non ricambiato. Lui si sente abbandonato, mi dice proprio: “Però quando vieni, non ci sei mai, questa casa non è un albergo, ma ti sembra questa l'ora di arrivare”. E ha ragione a stimarmi nelle potenzialità. Ma è uno sport che ho sempre amato. A casa, quando c'era il tennis in televisione lo guardavamo e appena finita la partita scendevo in cortile a rompere le scatole ai vicini con la palla al muro. Non lo potevo praticare perché era uno sport un po' da ricchi, all'epoca non ci riuscivo per questo, ora non ci riesco per una questione di tempo. L'ho ripreso ovviamente prima di iniziare a lavorare a questo film e la cosa bella è che visto che dovevo avere uno stile anni ‘80, era perfetto: ho la stessa rigidità che potevo avere all'epoca, rovescio a una mano perfetto, non ho dovuto proprio cambiare nulla. Ti porto indietro a casa Favino, quella da bambino, perché com'era chi c'era? Dove siamo? Siamo tantissimi, sei. Ho tre sorelle più grandi, una mamma molto presente e un papà che lavorava. Una tribù. Io sono l'ultimo arrivato, il più piccolo, e ho dovuto imparare un linguaggio che era già rodato. Mi sono inserito dove c'erano tante cose, tanta ironia ma anche tanta severità, tanta idea del nucleo familiare, scambi, curiosità… Che bambino eri? Sufficientemente tranquillo che però faceva divertire gli altri. Questa forse è la cosa che poi mi ha spinto a pensare di fare questo mestiere. Vedevo che riuscivo a stemperare le ansie, riuscivo a divertire e a divertirmi. Essendo l'ultimo, a distanza di 5 anni dalla mia sorella più vicina, ero un po' più solo, l’unico maschio, per cui mi sono inventato un amico immaginario per un po', dopodiché sono andato all'asilo. Come si chiamava? Marco. Costringevo mia madre a fare merende e poi dicevo che Marco non l’aveva voluta, mica la mangiavo io per far finta. Il caso ha voluto che all’asilo trovassi un povero Marco su cui ho fatto un copia e incolla e il malcapitato è diventato reale. Però la fantasia che avevo era già abbastanza vivida. Al liceo, che studente eri? All'inizio svogliatissimo, studiavo solo le cose che mi interessavano, ero il compagno di classe che imita tutti i professori, prendevo spesso delle note. Ma c'era un personaggio in particolare che imitavi? Un insegnante di religione, ma ce n'erano tanti e li facevo, come oggi continuo a fare i registi. Mi faceva ridere e passare il tempo. Però per amor di battuta ho preso un sacco di note. Ma c’è stato un caso peggiore, eclatante? Sì. Credo che fosse un'interrogazione di storia. Una cosa tipo: “La famiglia fa una cosa, perché?”. E io faccio: “E perché”. E la professoressa: “E perché?”. E io parto con: “E perché? Perché ndrínghete ndrà”. Mi mandò dal preside e devo dire che aveva ragione, però io se ho la battuta non posso non farla e glielo dissi. Il preside mi vide e chiese: “Che hai fatto stavolta?”. Io: “Le assicuro che non è colpa mia, è il demone dentro di me che mi spinge a fare questa cosa”. “Hammamet” di Gianni Amelio non è tanto un biopic della figura di Craxi quanto il ritratto di un re caduto, arrogante, ma anche con tantissime fragilità. Sì, contrariamente al personaggio de “Il maestro”, è un uomo che ha una leadership, che cade dall'alto. Io penso che Andrea in questa occasione mi abbia consentito, forse per la prima volta, di recitare veramente un perdente, e non uno reso tale dalle conseguenze di qualcosa che ha fatto. E questo lo posso dire di “Hammamet”, come anche de “Il traditore”, de “Il comandante”, e di tanti personaggi che mi sono stati dati, che m'hanno sempre un po' ammantato di una forza che forse ho faticato a mettermi addosso. Penso che il personaggio de “Il maestro” di Stefano mi assomigli più di quanto non mi siano assomigliati gli altri e che questo forse alla fine mi consenta anche di far vedere qualcos'altro di più vicino a me che quell'immagine un po' vincente che forse m'accompagna insieme ai personaggi che ho fatto. Quando è arrivata, se c'è stato un momento preciso, la chiamata della recitazione? La verità è che non c'è stato quell'istante, è sempre stata lì. A 7 anni volevo fare l'attore e se mi chiedi perché, posso dirti quello che dicevo prima. Ogni tanto mi sveglio oggi e mi dico: “Ma siamo sicuri?”, perché non c'è stata quella cosa della scelta consapevole, è avvenuto, per paradosso, in una maniera molto naturale, come se non potessi fare altro, come se fosse qualcosa con cui sono nato. Ma anche l'illustrissimo Favino, l'irreprensibile Favino, ha avuto un inizio o un momento difficile? Ho avuto anni in cui non lavoravo e facevo altro, certo. Per tantissimo tempo ho faticato a convincere le persone di poter fare certi ruoli. E devo dirti la verità, se mi guardo capisco perché non me li facevano fare, a vent'anni avevo già la faccia del trentenne, non ero figo, non ero giovane. Tu un ragazzo di vent'anni lo prendi anche perché porta con sé la giovinezza. E la giovinezza non è una cosa che si può raccontare, la giovinezza esiste. Io a 14 anni ero così, ma a vent’anni questa cosa non la capivo, e allora iniziavo a pensare ai circoletti, che non mi volevano, che non andavo bene, che non ero giusto. Mi ero dato una data di scadenza e avevo detto: “Se non succedono le cose che penso possano succedere o che vorrei che succedessero entro quest'età, allora forse è il caso che faccia altro”. E il caso ha voluto che succedesse proprio a quell'età. Se avessi saputo che mi ascoltavano avrei anticipato la scadenza di un paio d’anni. Adesso è fuori la terza stagione dei “Call my agent – Italia”. Nella prima eri Che Guevara. Ed è stato molto divertente. Quando me l'hanno proposto, ho detto immediatamente sì perché era la fase in cui dicevano: “Se incontri uno straniero per strada, non lo trattare male. Potrebbe essere Favino”. L'ho trovata geniale e ho detto: “Ma sì, assolutamente sì”. E ci siamo divertiti con un personaggio che tra l'altro mi sarebbe piaciuto enormemente interpretare. Tra l'altro la commedia è nelle tue corde. Ma io quello volevo fare, l'attore comico. Registi all'ascolto: io vorrei fare l'attore comico. Che compagno sei? Spero di essere una persona attenta, rispettosa. Sono un grande tifoso della mia compagna, abbiamo da sempre condiviso tutto, anche nelle mansioni pratiche. Dovresti chiederlo a lei, però, ma penso che ci equilibriamo molto, abbiamo fatto un lungo percorso insieme, quindi abbiamo anche imparato a farlo. E invece che papà sei? Tento di essere un papà in ascolto, però cerco anche di dare delle regole. Ecco, una cosa di cui son contento è che quasi sempre, tranne una volta, sono riuscito a essere presente ai loro compleanni, cerco di non lavorare mai in quei giorni, però cerco di esserci anche nelle piccole cose. E se ti chiedessi allora che cosa ti piacerebbe che un giorno, ricordandoti, dicessero di te le tue figlie? Loro non hanno paura degli uomini, non hanno paura del genere maschile. E in un momento così complicato, difficile, in cui io sento molto il bisogno di mettermi anche a disposizione di una causa così importante come quella sulla violenza contro le donne, sapere che hai saputo dare l'immagine di un uomo affidabile e non un prevaricatore è già una cosa che penso sia importante. Passiamo a “L’ultima notte di Amore” di Andrea Di Stefano, un noir. Ricordo che ci eravamo visti subito dopo la fine delle riprese e tu, che non sei solito dirlo, mi avevi detto: “Ho fatto un film, vallo a vedere, è bellissimo”. Ero contento che avessimo sfidato insieme la possibilità di fare un noir come non se ne facevano da tanto tempo. Era un genere che noi sapevamo fare ma che avevamo smesso di fare. È un po' quello che abbiamo tentato di fare adesso con la commedia, come si faceva una volta. Penso che fosse una bellissima sceneggiatura e che Andrea avesse, come effettivamente ha, un talento, un gusto per il cinema, e l’ambizione di fare un cinema elegante, raffinato. Penso che nel mio percorso sia stata un'esperienza abbastanza unica, ed è anche il motivo per cui continuiamo a lavorare insieme con Andrea e penso che questo non sarà il nostro ultimo film. Condivido molto l'idea di i poter fare qualche cosa di largo che però abbia una qualità alta. Ti ricordi il primo provino che hai fatto? Come no: un trauma. E non sto scherzando. Stavo facendo l'Accademia e vennero a scegliere dei ragazzi per un film tratto da un romanzo di Fenoglio, “Una questione privata”. La sceneggiatura era di Raffaele La Capria e di un giovane assistente che si chiamava Paolo Virzì. Lessi la sceneggiatura e impazzii, amavo moltissimo Fenoglio, e la casting decise di farmi un provino per il ruolo del protagonista, il personaggio di Milton. Feci questo provino, la casting felicissima, mi fecero incontrare il regista e lui rimase convinto dalla mia recitazione ma non dalla mia fisicità, perché, mi disse: “Sei troppo scuro”. Mi tinsero i capelli che per loro dovevano essere castani e venni fuori rosso carota. Comincia ad andare in giro col cappuccio perché mi vergognavo, però mi dissi: “Oh, è questo che voleva, mi prenderà?”. Scomparirono. Io non avevo un agente, avevo solo il numero di un assistente che facendomi coraggio decisi di chiamare dopo un mese: “Salve, si ricorda di me? Sono Pierfrancesco”. Il film stava diventando internazionale e non mi presero, presero un attore inglese che si chiama Rupert Graves. E però mi diedero un piccolissimo ruolo. Lo feci e non mi piacque per niente. Il regista, Alberto Negrin, urlava in continuazione, io stavo facendo la scuola di teatro. Con lui ho poi fatto “Bartali”, “Pane e libertà” e altre cose, ed è diventato uno dei miei più cari amici. Ecco, lui è stato un maestro, ci sono tante cose che mi ha detto che porto dentro di me. E ha avuto il coraggio di farmi esordire da protagonista, con “Bartali”, nel 2006, 15 anni dopo. È giusto fare la gavetta però questa è stata la mia carriera per un bel po’ di tempo. Con “Adagio” di Stefano Sollima si chiude un trittico composto anche da “Acab”, e “Suburra”, fatto di antieroi stanchi, vecchi, acciaccati. Come scegli oggi i personaggi che interpreti? Mi devono sfidare, devo trovare delle cose che ho voglia di investigare. Ovviamente le persone con cui lavoro, i registi e le storie che mi propongono sono la prima cosa che valuto, però dopo tanti anni so che cosa vorrei imparare a fare ancora e magari ci sono dei ruoli che me lo consentono più di altri che invece sono un po' sull'onda delle cose che ho già fatto. “Il maestro” viene in un momento in cui ho avuto un forte senso di disillusione e Andrea lo ha colto. Disillusione rispetto a cosa? Rispetto, al mio percorso, a quanto sento che incida il cinema nell'immaginario collettivo rispetto a quanto non facesse quando io ho scelto di farlo, alla possibilità che una storia ha di emozionare o meno. Un po' di stanchezza che penso fosse naturale, anche aver raggiunto degli obiettivi importanti, aver vinto premi, abbastanza per caso era successo che in due, tre anni avessi fatto dei ruoli molto importanti e molto riconosciuti. Quando arrivi a un traguardo così inatteso per quanto desiderato, ti senti un po' che devi capire di nuovo perché lo fai, devi ritrovare un po' di bisogno tuo, personale, intimo. Io non sono mai stato uno che inseguiva altre cose, nel fare il mio mestiere trovo un senso alla mia vita, e quando quel senso mi è sfuggito un attimo, ho avuto un po' di paura. Ti riporto nuovamente indietro da adolescente, il primo amore, quello non ricambiato. A voglia, tantissimi. Non dirò i nomi. Lo puoi dire, tanto non è che qualcuno s'offende. Ma quello offeso dovevo essere io. Ne ho avuti tanti. Mi innamoravo perdutamente ogni sette minuti, molto raramente ricambiato. Ma proprio mi innamoravo, sognavo di sposarmi e metter su famiglia con questa persona. Tantissimi amori non ricambiati, sofferenze, patimenti. In “Napoli - New York” di Gabriele Salvatores si parla del tema dell'adozione, a me molto caro, a testimonianza che si può, come dire, essere genitori anche se non si è in grado di generare, e poter generare senza essere un papà o una mamma. Sì, è una storia molto tenera, tra l'altro immaginata da Fellini e Pinelli negli anni ‘40. Ci credo molto alla cosa che hai detto, credo al fatto che i figli siano di chi li ama e ci credo profondamente. Ne sono la riprova tante famiglie che conosco, tanti amici che hanno dei figli molto amati pur non avendoli generati. C'è un libro nella Bibbia che si chiama Qoelet, in cui uno dei passaggi cardine è “c'è un tempo per ogni cosa”. Questo che tempo è per te? È un tempo di cambiamento, di maturazione. L'ho capito e ho aspettato, com'è normale che sia. Mi sto trasformando, stanno succedendo delle cose dentro di me. Però è un bel tempo. Ho sentito che ero dentro un tunnel e mi son detto: “Devo stare qua, è inutile che mi metto a spingere, è inutile che mi metto a scappare. Questa cosa mi porterà da qualche parte, probabilmente con qualche ferita oppure con qualche guadagno in termini di maturazione”. Sento che stanno cambiando delle cose attorno a me, moltissimo, sia dal punto di vista privato che dal punto di vista mondiale. Sento molto quello che c'è intorno a me e sono molto felice di appartenere a un mondo in cui per poter fare queste immagini ci si deve incontrare la mattina all'alba insieme a una persona che nel frattempo è andata lì e ti ha scaldato il posto in cui ti cambierai, al truccatore, al costumista, all'elettricista, al macchinista. Tutti lì a dannarsi, a cercare di dare il meglio di sé per un'inquadratura. Ecco, il fatto che così tante persone si spendano per rendere visibile un sogno penso che non abbia prezzo, e lo dico in un momento in cui invece si vuole ridurre ciò che facciamo a un qualche valore commerciale. Credo che lo sappiano anche le persone a casa che sono state cambiate dai film nella loro vita, che si ricordano a memoria una battuta, che si ricordano il cinema dove hanno visto quel film. Ma se chiedessi a te di quel cinema e di quel film che ti hanno fatto sognare? Ti posso dire i cinema dove ho visto tantissimi film. Ne vedevo tre al giorno. Ti posso dire che ho visto la prima versione di “Nuovo Cinema Paradiso” in un cinema che si chiamava Ariston, che ora non c'è più. E “La famiglia” di Scola al Gioiello. “Ricomincio da tre” è stato il primo film che ho visto non con i miei genitori ma con mia sorella, al “Gregory”. Ho visto “L’attimo fuggente” e “Shine” al Festival di Venezia, da studente. Al Labirinto di Roma ho visto “Un cuore in inverno”. C'è un periodo della nostra vita, almeno per quelli della mia generazione, in cui quelle immagini hanno costruito chi eravamo sotto l’aspetto delle nostre emozioni. E ora magari sarà diverso, ma questa cosa rimane. Noi sogniamo come vediamo il cinema, noi sogniamo in sedici noni perché esiste il cinema.

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Pierfrancesco Favino: “Sogniamo in 16:9 perché esiste il cinema”

Omar Schillaci