Gianluca Jodice: "In Le déluge racconto gli ultimi giorni di Luigi XVI e Maria Antonietta"

Il nuovo film di Gianluca Jodice, “Le déluge”, arriverà al cinema il 21 novembre con Bim Distribuzione. È ambientato durante la fine della Rivoluzione francese e racconta gli ultimi giorni di vita di Luigi XVI e Maria Antonietta. La cosa interessante, però, è il modo in cui Jodice riesce a mettere a nudo due personaggi così conosciuti e a riavvicinarli alla loro istintività e al loro lato più umano. Lui, interpretato da Guillaume Canet, e lei, interpretata da Mélanie Laurent, rappresentano le facce della stessa medaglia; e a tratti si somigliano e a tratti, invece, si respingono. Se Maria Antonietta è più diretta, Luigi XVI sembra non riuscire né a comprendere fino in fondo quello che sta succedendo né a lasciarsi andare a un’emotività più sincera. Di colpo due divinità, cresciute e istruite come portatrici di valori altissimi, vengono spogliate di qualunque potere e privilegio e tutto ciò che rimane sono un uomo e una donna che devono imparare nuovamente, nella loro vita, a fare i conti con il mondo e la sua ferocia. La dimensione del racconto è ridotta a pochi locali, eppure grazie all’attenzione che c’è stata nei costumi curati da Massimo Cantini Parrini, nelle scenografie ricostruite da Tonino Zera e nella fotografia firmata da Daniele Ciprì è quasi impossibile rimanere indifferenti. Alcune inquadrature, con i loro colori e la loro profondità, somigliano ad affreschi. “Le déluge”, che in italiano è accompagnato dal sottotitolo “gli ultimi giorni di Maria Antonietta”, è un film sontuoso e bellissimo, che si affida tanto alla scrittura e alla regia quanto alle interpretazioni del cast. Ciò che Jodice desiderava, racconta, era trovare un punto di vista alternativo: non quello di chi la rivoluzione l’ha fatta, ma quello di chi, dalla rivoluzione, è stato spazzato via. Com’è stato dirigere Guillaume Canet e Mélanie Laurent? Entrambi sono sia attori che registi. In realtà, questo è stato un film pieno di registi: Matteo Rovere, uno dei produttori, è regista; Daniele Ciprì, il direttore della fotografia, è regista. Sui miei set ce ne sono sempre tanti. È un caso. Ma è stato più facile lavorare con due interpreti che sono anche registi? No. Quello che ha aiutato è stata la loro grandissima professionalità. Sono stati estremamente attenti durante la preparazione dei loro ruoli, quasi maniacali. E hanno dimostrato di tenerci veramente tanto. Forse perché, interpretando Luigi XVI e Maria Antonietta, si sono sentiti coinvolti quasi su un piano personale. No, non credo che sia stato questo. Credo che, molto semplicemente, abbiano una visione più concreta e organizzata del loro lavoro. Il punto non è il tema; il punto è il modo in cui si concepisce un mestiere e si sta al mondo. La mia non è una critica indiretta agli italiani: come cinema, abbiamo avuto e abbiamo ancora attori grandissimi. È anche vero, però, che sappiamo mischiare alla nostra genialità una vena più, diciamo così, caotica. Ci sono stati dei momenti di confronto tra lei, Laurent e Canet su come procedere con una scena? Certo che ci sono stati, certo. Ci sono state delle letture del copione prima delle riprese, sia insieme sia separatamente. È una cosa che faccio sempre per ogni mio film. Nelle scene che un attore reputa più delicate, il regista deve essere pronto a seguirlo e ad ascoltarlo. E in questo il cinema sa essere molto imprevedibile. Ci sono state scene più delicate di altre? Nel caso di Mélanie, le posso dire che era ossessionata da una scena in cui doveva urlare. E l’ha provata molte volte, anche da sola. Lei vive nel sud della Francia e ha questa casa vicino al mare. Andava alla scogliera e urlava. Sul set, quando l’abbiamo fatta, ha indossato delle cuffie e ascoltato musica classica ad alto volume proprio per non sentire niente. Lei lo sapeva? No. L’ho scoperto dopo. Questa scena è arrivata tardi nelle riprese? L’abbiamo fatta il secondo giorno. I piani di lavorazione, a volte, sanno essere veramente diabolici. “Le déluge” si concentra sulla trasformazione che i due protagonisti devono affrontare: da re e regina a persone normali, messe davanti alla fine del loro mondo e alla morte. Se Maria Antonietta è più istintiva e decisa, pronta – appunto – a urlare, Luigi XVI fa quasi fatica a lasciarsi andare. Sembra un bambino. Perché ha scelto proprio questo tema? Mi sono affidato molto alle fonti che ho letto e studiato, e ho provato a costruire nel modo più fedele possibile quello che è stato l'arco che hanno attraversato entrambi i personaggi. Maria Antonietta era famosa per le sue continue violazioni di protocollo a corte. Veniva dall'Austria, ma Versailles aveva regole veramente stringenti. E lo racconta piuttosto bene il film di Sofia Coppola. In questa seconda parte della sua vita, Maria Antonietta finì per maturare velocemente e per trovare un nuovo centro. Luigi XVI, invece? Secondo alcuni storici, aveva la sindrome di Asperger. Ne aveva tutti i segni e i sintomi. Preferiva passare del tempo da solo; non aveva alcuna inclinazione alla socialità. Si divertiva a lavorare agli ingranaggi e sul ferro. E anche di fronte al dolore che ha provato alla fine della sua vita, sembrava assente e lontano. In qualche modo, però, ci fu un avvicinamento tra lui e Maria Antonietta. Non voglio chiamarlo amore, no, ma ci fu decisamente qualcosa. E perché ha voluto raccontare questa storia? Ciò che i miei primi due film hanno in comune, come ho detto anche in altre occasioni, non è tanto la storia ambientata nel passato ma il fatto che i protagonisti si ritrovino a dover affrontare la fine. Se ci pensa, è quello che succede anche ne “Il cattivo poeta”. Credo che in questi periodi particolari della vita le persone tendano a mostrarsi fino in fondo, rivelando aspetti che o per diplomazia o per paura hanno sempre nascosto. C’è un’esplosione quasi tragica di verità. Raccontando Luigi XVI e Maria Antonietta, ha finito per raccontare, anche se solo indirettamente, la furia e la bestialità della rivoluzione. L’unica eccezione è rappresentata dal procuratore che viene incaricato di vigilare sulla famiglia reale durante la sua prigionia. E ce ne sono anche altre di eccezioni, secondo me. Il punto è che questa furia e questa bestialità non si sono fermate con la morte di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Il procuratore che lei cita, e che io ho voluto rendere più giovane rispetto a quanto riportato dalle fonti storiche, è stato decapitato subito dopo. Perché, appunto, considerato troppo gentile nei confronti di Luigi XVI e Maria Antonietta. La spirale di violenza di quegli anni andò avanti per molto tempo. I capi della rivoluzione cominciarono ad accusarsi a vicenda. La violenza è sempre una questione metafisica: non si ferma davanti a ciò che pensiamo o che crediamo sia giusto. In questo caso, la morte del re non segnò la fine della sopraffazione dell’uomo sull'uomo. Crede che questa sete di violenza e, talvolta, di vendetta ci sia ancora oggi? Lavorando a questo film e al suo aspetto, diciamo così, più filosofico, ho letto molto François Furet, uno storico francese marxista. E lui fa risalire l’odio che si è diffuso tra il Novecento e oggi verso l’avversario politico, e che non va confuso con la semplice inimicizia, al terrore che si diffuse durante la rivoluzione. A un certo punto, quasi lateralmente, “Le déluge” diventa una riflessione sull’essere attori. Tutti, re e regina compresi, recitano una parte. E devono portarla avanti fino alla fine. In una scena, Maria Antonietta lo esplicita e dice che, fino a quel momento, lei e Luigi XVI avevano giocato. E in francese giocare si traduce con jouer che vuol dire anche recitare. Non erano pronti per regnare. Nessuno dei due. Né Maria Antonietta né Luigi XVI. Lei divenne regina quando era poco più che una bambina, lui, invece, non venne mai istruito a dovere per regnare. In questo modo, due persone che non erano preparate a fare ciò che erano chiamate a fare furono costrette a interpretare una parte. Molti storici si sono domandati come sarebbero andate le cose se ci fosse stato qualcun altro al posto di Luigi XVI. Raccontare una storia come questa, che temporalmente è lontana da noi ma che è comunque estremamente conosciuta, richiede una certa distanza? Questa è una cosa che ho provato a fare anche con “Il cattivo poeta”. Non ho mai cercato, in nessuno dei due film, ammiccamenti, complicità o risonanze con ciò che succede oggi. Se ci sono dei riferimenti, sono più profondi e quasi casuali. Un film storico inevitabilmente racconta più dell’epoca in cui viene girato che dell’epoca in cui è ambientato. Ciò che mi ha sorpreso durante le prime proiezioni è che molti spettatori hanno ritrovato quella stessa emozione inquietante e traumatica che si avverte quando la storia sta per cambiare. Ed è un tema che, volenti o nolenti, si ricollega alla stretta attualità. Qual era, per lei, la cosa più importante? Provare a spostare il punto di vista. Una cosa che, se ci pensa, ha fatto anche “M. Il figlio del secolo” . Non volevo raccontare per l’ennesima volta la storia della rivoluzione dal punto di vista dei rivoluzionari: ho provato a ribaltare il quadro e a concentrarmi su Luigi XVI e Maria Antonietta, e questo, attenzione, non significa sposare i loro comportamenti o le loro idee. Volevo mettere in scena la fine di un paradigma sociale e culturale concentrandomi sui regnanti e non sui sudditi. Ha sempre avuto in mente Mélanie Laurent e Guillaume Canet per i ruoli dei protagonisti? No, devo dire di no. Li abbiamo trovati con i provini. Si parte da una rosa di nomi e poi, piano piano, si arriva a quelli definitivi. Ciò che fa la differenza è l’incontro di persona. Se in quel momento scatta qualcosa, scatta una scintilla, finisci per convincerti della tua scelta. Sia Mélanie che Guillaume sono stati colpiti dalla sceneggiatura: era molto precisa, e inizialmente si sono affidati a quella. Lei e Filippo Gravino avete scritto questo film già in francese? No, no. Prima in italiano. Poi abbiamo fatto tradurre e rivedere il copione. Conosco il francese, perché in un’altra vita mi sono laureato in filosofia su un autore francese. Ma ho preferito partire dall’italiano. Il 21 novembre “Le déluge” uscirà in Italia, il 25 dicembre in Francia. Le mette agitazione questa seconda data? Un po’ sì. Mi mette agitazione, curiosità e paura. Un po’ di tutto, direi. In Francia vai a toccare uno dei nervi principali della loro storia. C’è già stata una proiezione? Il mese scorso “Le déluge” è stato mostrato in un piccolo festival di Tolosa, dove solitamente vengono presentati film storici. Io mi sono collegato per partecipare al dibattito dopo la proiezione del film. Uno degli spettatori ha detto che forse fare oggi un film simile, dal punto di vista dei monarchi, con quello che sta succedendo nel mondo, può essere pericoloso. Lei che pensa? Che è una sciocchezza. Non ha senso giudicare quello che è successo secoli fa con la sensibilità e i valori di oggi. Il francese, in questo film, è fondamentale. Proprio per la storia che racconta e per il suo cast. Dà una musica precisa alle pause e ai dialoghi. Ha seguito personalmente il doppiaggio italiano? Sì, e la produzione è stata tanto gentile da assecondare le mie richieste quando non ero d’accordo su una scelta o su un certo passaggio. Ci tenevo a che il film funzionasse perfettamente anche in italiano. Verrà distribuito anche in lingua originale? Sì, ci sarà qualche copia in originale. A Roma, al Quattro Fontane, ma anche a Milano e in altre città. Dopo “Il cattivo poeta” e “Le déluge”, sta pensando di fare un altro film storico? Per chiudere, magari, una trilogia. No, non ci sarà. Ho già scritto il mio prossimo film ed è un noir erotico ambientato nella Londra contemporanea, in inglese. È difficile girare film in costume? Difficilissimo. Questo film è stato molto complesso. Non avevamo un budget così grande, e abbiamo girato in meno di sette settimane. Abbiamo dovuto fare l’impossibile. Ed è stato veramente sfiancante, mi creda.