Perché “Stop Making sense” dopo 40 anni rimane il film-concerto più innovativo di sempre

“Same as it ever was, same as it ever was”. Ripete David Byrne come in un mantra allucinato durante l'esecuzione di “Once in a lifetime”, un inno all'assurdità della vita, durante una delle tre esibizioni live dei Talking Heads al Pantages Theatre di Los Angeles su cui è basato il film-concerto “Stop Making Sense” che quest'anno ha compiuto 40 anni. Per l'occasione è stato restaurato e rimasterizzato in 4K dalla A24, la casa di produzione indipendente più cool del momento, quella che ha prodotto e distribuito titoli come “Moonlight”, “Midsommar”, “Everything Everywhre All al Once” e “Past Lives”. E, come sempre, anche dopo 40 anni, rimane un film unico, geniale, entusiasmante. Ma perché? La struttura del film Il film si distingue per il suo approccio minimalista e non convenzionale. Non c'è una narrazione tradizionale, non ci sono interviste, teste parlanti o dietro le quinte. Tutto si concentra sulla musica e la struttura segue l'ordine di ingresso degli strumenti e dei membri della band sul palco. La performance inizia con David Byrne, il leader del gruppo, in abito chiaro e scarpe da ginnastica bianche, una chitarra e un mangianastri che riproduce la traccia di batteria “Psycho Killer” che esegue in solitaria. Da lì in avanti si aggiungono gradualmente gli altri membri della band e i musicisti ospiti, fino a raggiungere la formazione completa, creando una dinamica che sembra crescere in energia e intensità con ogni nuova canzone. Intanto la troupe sposta pezzi di scena sul palco e osserviamo la creazione di un mondo, in cui le persone trovano una gioia vertiginosa nel fare musica insieme. Byrne e il chitarrista Alex Weir, in "Burning Down the House", corrono selvaggiamente fianco a fianco come se all'improvviso, felicemente, fossero diventati una persona sola. Poi ci sono i piccoli e perfetti passi della bassista Tina Weymouth che fanno da punteggiatura al ritmo tracciato insieme al batterista Frantz, con la sua polo blu così poco da rockstar. Il percussionista Jerry Scales che fa le linguaccee in favore di camera e Jerry Harrison che si muove serio tra chitarra e tastiere. Per finire le coriste Ednah Holt e Lynn Mabry, due raggianti fari di energia, che interagiscono giocosamente con tutti gli altri sul palco nel ruolo di una sorta di guide in una crociera del piacere musicale. E poi c'è David Byrne, il Chuck Berry dell'art-rock new wave che qui sembra incredibilmente giovane, ma anche senza età. In “Stop Making Sense” Byrne offre una performance di sbalorditiva sicurezza e carisma, sia che balli con una lampada in "This Must Be the Place", che corra all'infinito in "Life During Wartime" o che fissi senza battere ciglio la telecamera mentre canta "Swamp". E poi cammina come una papera, salta, ulula e si scatena lungo tutto il palco. A un certo punto, sembra diventare una marionetta: la linea verticale dell'asta del microfono lo divide in due, con braccia e gambe che roteano apparentemente indipendenti l'una dall'altra. Tra performing art e concerto rock. È come se la musica possedesse lui, ma anche noi che lo stiamo guardando. Forse è stato questo film, uscito proprio all'apice del successo della band, a cristallizzare la percezione del pubblico su Byrne come qualcuno più importante del resto della straordinaria band e ad accelerare la propria direzione verso una carriera da solista. Il momento clou è, ovviamente quando Byrne esce con la surreale "Big Suit" color crema per cantare “Girlfriend Is Better”: è uno schizzo bidimensionale di un vestito che fa sembrare Byrne come uno schiacciato da un rullo compressore. Una semplice trovate scenica che lascia senza parole: il completo bianco non è esattamente uno scherzo, eppure non dà la sensazione che sia una cosa seria. Stop making sense, appunto. Le canzoni Le canzoni in sé sono una sorta di microdrammi dinamici, a metà tra teatro, pop e performance rock. “Life during wartime” è tristemente attuale, e pure un pezzo come “Found a job” parla della dipendenza dalla tv, ma in realtà va molto oltre. Canta Byrne “Le persone che litigano per piccole cose e sprecano tempo prezioso / Potrebbero stare meglio, credo, per come mi sembra / Inventarsi i propri programmi, che potrebbero essere meglio della TV” e sembra proprio che David Byrne abbia previsto TikTok con 40 anni di anticipo. In “Stop Making Sense” i Talking Heads rivitalizzano un vecchio pezzo soul di Al Green, ma anche la già citata “Once in a lifetime”, una canzone d'avanguardia trasformata in un pezzo pop. La regia Jonathan Demme nel 1984 non era ancora un regista affermato, bensì uno dei tanti allievi dello studio di Roger Corman, maestro del B-Movie. Qui però Demme fa molto di più che filmare un concerto, ma lo trasforma in un'esperienza cinematografica unica, enfatizzando la teatralità e l'arte della performance dei Talking Heads. La regia discreta e abile di Jonathan Demme evita i tagli rapidi tipici dei filmati dei concerti, preferendo lunghe inquadrature che permettono allo spettatore di immergersi completamente nello spettacolo. Questo approccio enfatizza anche l'arte del suono, poiché ogni strumento viene introdotto con precisione e costruisce l'atmosfera. La versione restaurata in 4K di “Stop Making Sense” enfatizza ancora di più tutto questo e sarà possibile vederla alla Festa del Cinema di Roma il 19 ottobre, cui seguirà il tour “Stop Making Sense Party” in varie città , mentre dall'11 al 13 novembre ci sarà la proiezione del film in 4K nelle sale italiane. “Stop Making Sense” sta tornando ed è sempre bello rivederlo. Come sempre. Same as it ever was.