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Zucchero: "Ecco un docufilm per conoscermi veramente"

Cinema

Bruno Ployer

foto@Luigi Rizzo

In anteprima alla Festa del Cinema di Roma e poi per tre giorni in sala 'Zucchero-Sugar Fornaciari', il documentario nel quale la star del pop si racconta dall'infanzia in Emilia e Toscana ai successi nel mondo

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“Ho il difetto di essere diretto, genuino e quindi a volte penso che questo mio carattere magari ha fatto pensare che me la tirassi, che fossi poco simpatico. Adesso invece con questo docufilm penso che sia venuto fuori quello che sono veramente”.

 

‘Zucchero - Sugar Fornaciari’ è un documentario per parlare di sé, per raccontare radici, famiglia, luoghi della vita, per disegnare un autoritratto. Così Zucchero si vede allo specchio, con il supporto di tanti big della musica internazionale con cui ha collaborato e che squadernano ricordi. Di Zucchero è la voce narrante del film, con Zucchero sono le immagini che partono dagli incerti inizi di carriera e arrivano ai trionfi.

Questo docufilm, con la regia di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano, dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma è destinato per tre giorni alle sale: 23, 24, 25 Ottobre.

Intervistiamo Zucchero in un villaggio della Festa dedicato ai media, dove il viavai è soprattutto di attori e registi. Il cantautore però, come sempre appare a suo agio anche in questo ambiente dove è al debutto.

 

B.P.: Zucchero, mi pare che con questo film abbiate voluto realizzare un album, per una volta non musicale, ma di immagini. È così?

 

Z.: “Sì, ci tenevo che venisse fuori anche una buona parte di Adelmo (il nome all’anagrafe di Zucchero Fornaciari, ndr) più che di Zucchero. Poi le mie radici, che sono state importanti e lo sono tutt'ora: lo sradicamento da un paesino è una cosa che mi ha fatto soffrire molto. Insomma, ci sono anche aspetti della mia vita privata poco conosciuti per il grande pubblico che ti vede sul palco o in televisione. “

 

B.P. :Naturalmente il film si regge sulla musica e trovo che metta in evidenza quanto tu abbia portato in Italia suoni e voci del mondo e quanto tu abbia portato nel mondo estro e lirismo italiani.

 

Z.:” Mi hanno messo l'etichetta di bluesman. D'accordo, mi piace, ma il Blues si ripete sempre uguale, cioè sono tre accordi, 12 misure ed è quello il Blues. Io attingo dal ritmo, dalla sensualità dei suoni del Blues, ma a un certo punto in tutti i brani parte la melodia. È la melodia mediterranea, la nostra melodia italiana: questo ha fatto la differenza, è questo che per esempio ha emozionato Miles Davis in 'Dune Mosse'. Non ho mai pensato di fare veramente Blues, per me non ha senso. Sono italiano, vengo da una terra dove l'opera si sente o si sentiva ovunque, da Parma a Modena. C'è anche questo in me ed è emerso negli anni a forza di fare concerti anche nel resto del mondo. Poi c’è la decisione di cantare sempre in italiano e non in inglese quando sono in America o in Inghilterra. Canto in italiano, cioè nella lingua originale. All'inizio era una sfida che pensavo non funzionasse, invece si è rivelata importante."

 

B.P.: E l’Italia piace…

 

Z.: “Sì, sì, piace. Soprattutto la musica italiana.”

 

B.P.: Ogni collaborazione ha le sue particolarità, però, in generale, quanto sono stati importanti per il tuo sviluppo le collaborazioni con i mostri sacri della musica internazionale, dei quali ormai anche tu fai parte?

 

Z.: “Importantissime, soprattutto perché mi hanno aperto le porte in altri Paesi. Cominciarono quando Eric Clapton vide un mio concerto ad Agrigento. Era lì in vacanza con la sua compagna di allora, Lory Del Santo. Venne a trovarmi in camerino, io non ci credevo.  Mi disse: ‘Ho ascoltato un concerto, una musica e una band straordinarie. Ti piacerebbe aprire i miei concerti alla Royal Albert Hall a Londra?’ Abbiamo fatto insieme dodici concerti e in seguito una tournée in Europa nei palasport.  Da lì hanno cominciato a pubblicare i miei dischi anche fuori. Clapton mi ha aperto una strada, gli sarò sempre riconoscente."

 

B.P.: Quindi quella è stata una svolta per te?

 

Z.: “Sì, perché era il ’90, io venivo dall'album ‘Oro, incenso e birra’ e poi dopo i concerti con Clapton è venuto fuori ‘Senza una donna’ con Paul Young, che ha fatto il giro del mondo. È stato un momento molto importante.”

 

B.P.: Ti chiedo una cosa che nel film non ho capito: come e quando hai cominciato a masticare il pentagramma, a parte la chitarra da bambino?

 

Z.: “Guarda, non ho mai masticato Il pentagramma. Andai a lezione da un fisarmonicista per imparare la scala, ma pensavo che lui mi facesse subito suonare lo strumento. Invece prima mi ha detto: ‘Facciamo un mese di solfeggio’.  Mi annoiavo e non ci sono più andato, quindi di conseguenza io non leggo la musica, vado sempre a orecchio. Conosco gli accordi, ho fatto pratica sul piano e sulla chitarra, ma da autodidatta. D'altra parte posso fare il mio mestiere perché ho fatto una gavetta lunghissima, in un’orchestra dove dovevamo fare tutto, dal pezzo in classifica ai valzer, dal cha cha cha a ‘My Funny Valentine’, tutto il repertorio internazionale. Il capo orchestra ci dava solo la tonalità, diceva ‘do maggiore’ e tu dovevi seguire gli accordi a orecchio.”

 

B.P.: La prossima estate ti esibirai negli stadi di Bologna, Messina e Milano. Che tour sarà?

 

Z.: “Sarà un altro lungo lunghissimo: partiamo dalla Royal Albert Hall per tre sere e facciamo i festival in Europa, poi ritorniamo negli stadi in Italia. Un tour che andrà avanti fino al 2025.”