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Vittorio Gassman, 20 anni senza l'indimenticabile mattatore

Cinema

Alessio Accardo

Il 29 giugno del 2000 moriva il grande attore. Ecco cosa ci racconta il Commediante sulla vita del gigante solitario

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VITTORIO GASSMAN, IL MATTATORE

Nato a Genova il 1° settembre del 1922 da padre tedesco, l’ingegner Heinrich Gassmann, ad un certo punto della sua carriera Vittorio Gassman (FOTO) decide di sopprimere la seconda “n” del suo cognome poiché gli pareva che così suonasse più orecchiabile. Il figlio Alessandro se ne riapproprierà molti anni dopo, come forma di risarcimento morale nei confronti della nonna, la mamma di Vittorio, Luisa Ambron, che essendo di religione ebraica il proprio cognome aveva dovuto modificarlo per motivi razziali.
 

Trasferitosi a Roma giovanissimo, Gassman si diploma presso l’Accademia nazionale d'arte drammatica; praticando contemporaneamente molto sport, in particolar modo la pallacanestro, grazie al fisico atletico e aitante che lo aiuterà anche nelle future performance attoriali.

Nel 1943 debutta a Milano e ottiene i suoi primi successi a Roma, al Teatro Eliseo; prima di interpretare i più grandi classici della tradizione internazionale nella prestigiosa compagnia di Luchino Visconti, in cui già militavano dei mostri sacri come Rina Morelli e Paolo Stoppa.
 

Il debutto cinematografico avviene grosso modo in quegli stessi anni, grazie a film come Daniele Cortis di Mario Soldati (1947), La figlia del capitano di Mario Camerini (1947) e Il cavaliere misterioso di Riccardo Freda (1948); drammi romantici o film d’avventura (o “cappa e spada”, come si definivano allora), nei quali i registi scelgono di utilizzarlo sulla base della prestanza fisica e di una dizione perfettamente impostata, qualità grazie alle quali si stava distinguendo a teatro.

Il film più emblematico di questo periodo è senz’altro Riso amaro di Giuseppe De Santis (1949), uno dei capolavori del neorealismo, noto principalmente per il personaggio della bella mondina di Silvana Mangano; nel quale Gassman interpreta il ruolo di un villain cattivissimo, dai tratti così estremi da apparire quasi caricaturali. Un personaggio al quale il nostro sarebbe stato destinato a rimanere inchiodato per tutta la vita, probabilmente, se non fosse intervenuta l’intuizione di Monicelli.

L’INTUIZIONE DI MONICELLI: NASCITA D’ UN COMICO

Nel 1958 Mario Monicelli gira con I soliti ignoti, un film epocale, persino rivoluzionario se si considerano gli sviluppi che produrrà in seguito. Una storia di ladruncoli da strapazzo in cui il regista viareggino mette insieme l’eroe del filone “poveri ma belli”, Renato Salvatori; fa esordire una giovane tunisina che farà molto parlare di sé, come Claudia Cardinale; dà spazio a un bellone nato in provincia di Frosinone, che stava riscuotendo un discreto successo in una serie di film diretti da Alessandro Blasetti e interpretati da Sophia Loren come Marcello Mastroianni; doppia in bolognese l’attore di sceneggiate napoletane Carletto Pisacane (da allora per sempre “Capannelle”) e in siciliano uno sguattero sardo, Tiberio Murgia. E infine nobilita l’operazione facendosi scrivere il copione dalla sceneggiatrice di Visconti, Suso Cecchi D’Amico (con i soliti Age e Scarpelli), e chiamando a recitare come una sorta di nume tutelare l’anziano Totò, che vi si impone in una particina memorabile.
 

Aveva la banda di ladri ma gli mancava il capobanda. È allora che tenta un azzardo: scommette sulle doti comiche di quel ragazzone genovese che, nonostante le trasferte hollywoodiane, tutti ritenevano ancora troppo trombone per funzionare al cinema. E così, dopo avergli cambiato i connotati (abbassandogli la fronte con un parrucchino e allargandogli il naso con del cotone) lo trasforma in un miles gloriosus dei giorni nostri, un Don Chisciotte de’ noantri, un condottiero balbuziente. Un azzardo che, in un colpo solo, cambia radicalmente le fortune di Gassman e imprime una svolta storica al cinema italiano.
 

Nasce così il Gassman comico, un “tipo fisso” in cui l’ironia scaturisce proprio dal contrasto tra il suo fisico imponente e le azioni sciagurate e maldestre che realizza; dal cozzo esilarante tra la retorica declamatoria del mattatore teatrale dall’eloquio forbito e la cialtroneria farfugliante delle sue improbabili rodomontate. Un character che troverà la sua massima realizzazione nel 1966, in un altro film epocale di Monicelli, L’armata Brancaleone, ma che già era stato riproposto con discreta fortuna in svariate occasioni, tra cui L’audace colpo dei soliti igniti (1959) e La grande guerra (1959), entrambi diretti ancora da Mario Monicelli; e in due film di Dino Risi, di cui ci occuperemo più avanti.

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IL SODALIZIO CON DINO RISI (DENTRO E FUORI DAL SET)

 

Tra Vittorio Gassman e il milanese Dino Risi il legame che nasce non si limita al contesto professionale. Entrambi nordici in un cinema italiano prevalentemente “romano”, i due condividono anche una certa affinità caratteriale, fatta di garbo, eleganza, ironia e un filo di arguto cinismo. Oltre a quel gusto un po’ smargiasso da “bon vivant” settentrionale, che ne fece due seduttori impenitenti, mai insensibili alle tentazioni del piacere della conquista.

Il connubio cinematografico nasce nel 1960 con un film dal titolo paradigmatico: Il mattatore, un film a episodi intrecciati nel quale, sfruttando le fortune dell’omonimo show televisivo dello stesso Gassman, Risi gli fornisce l’opportunità di sciorinare tutto il suo camaleontico fregolismo; impersonando un truffatore che è costretto di volta in volta ad assumere fattezze, tic e inflessioni dialettali dei personaggi più diversi. L’anno successivo Gassman rientra nella filmografia di Risi quasi per caso, in un cameo: impersonando sé stesso in Una vita difficile (1961); un altro capolavoro della commedia all’italiana, in cui si celebra un altro mito di questo genere cinematografico, Alberto Sordi. Quindi Il sorpasso (1962), fotografia vivida di un’epoca (quella del boom economico), epitome della commedia all’italiana e vetta artistica tra le più alte in assoluto dell’intera filmografia di Gassman. 

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IL SORPASSO: FOTOGRAFIA DEL BOOM

Se si dovesse scegliere un film, uno solo, che racchiude nella sua metratura di pellicola l’anima più profonda della commedia all’italiana, questo sarebbe senz’altro Il sorpasso, da molti ritenuto il capolavoro assoluto di Dino Risi.

Lo è perché, come capita ai migliori titoli di questo peculiare genere nostrano, ha saputo cogliere il cosiddetto zeitgeist dell’epoca, lo spirito dei tempi; anni di irrefrenabile euforia da benessere diffuso che tuttavia celava da qualche parte un certo malessere inconfessabile, che il finale del film racconta in maniera impeccabile ed impietosa. Perché narrando le avventure disgraziate di due persone riesce magicamente a raccontare una generazione intera. In fondo Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignan) e Bruno Cortona (Vittorio Gassman) altro non sono che due potenti metafore dell’Italia dei “favolosi anni ‘60”: il primo è la parte sana ed edificante e il secondo quella individualista e amorale. S

Perché codifica in modo inesorabile l’alfabeto, la sintassi e gli stilemi di un genere cinematografico che aveva inaugurato il cinico Monicelli, rendendo quel cinismo però più affabulatorio e seducente: è infatti l’esempio più paradigmatico della commedia all’italiana perché riesce a dosare in maniera perfetta il lato comico e quello drammatico (qui persino tragico) della vita.

Perché disegna definitivamente le coordinate stilistiche del road-movie all’italiana; e non solo, se è vero che il più famoso film on the road della storia del cinema, Easy Rider di Dennis Hopper, è dichiaratamente ispirato a questo. E, ancora, perché consente a Vittorio Gassman di indossare la sua seconda maschera da commediante cinematografico, oltre a quella che abbiamo tratteggiato nei precedenti paragrafi: quella del gradasso seducente, del simpatico cialtrone, del mascalzone con la faccia da schiaffi al quale, tuttavia, per qualche motivo finiresti per perdonare quasi tutto. E in ciò, dunque, si fa metafora di questo cinema che stiamo descrivendo, che se da un lato intendeva sferzare il malcostume del nostro Paese dall’altro non riusciva proprio a non autoassolversi in qualche misura. Perché la commedia all’italiana, e i suoi protagonisti (Gassman in primis; la sua dramatis persona, s’intende) è fatta della stessa materia di cui era fatta la società del boom: vitale e cialtrona, arrembante e spericolata, disgraziata e gaia al tempo stesso.

Come spesso accadeva a quei tempi, anche la genesi del film reca in sé qualche cosa di rocambolesco: in origine il soggetto de Il sorpasso era infatti stato scritto da Rodolfo Sonego per Alberto Sordi, quando però la produzione passa a Mario Cecchi Gori diventa impossibile utilizzare l’attore romano che aveva un contratto in esclusiva con Dino De Laurentiis. E fu così che, quasi per caso, Bruno Cortona venne affidato a Vittorio Gassman il quale ne fece un personaggio leggendario. Insieme a Brancaleone il suo più famoso e il più importante.

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Nonostante le consuete stroncature della critica dell’epoca, Il sorpasso ottiene un ottimo successo di pubblico, grazie al passaparola.

E così Dino e Vittorio continuano a far vivere il loro sodalizio artistico, già dall’anno successivo: nel 1962 girano La marcia su Roma, parodia d’impianto farsesco sulla genesi del fascismo, che segna la nascita di una coppia comica tra le più affiatate di sempre, anche fuori dal set, quella formata dallo stesso Gassman e da Ugo Tognazzi.

L’anno successivo arriva I mostri (1963), altro must della commedia all’italiana, stavolta appartenente a un filone piuttosto consistente di questo genere, quello del “film a episodi”; praticato specialmente proprio da Dino Risi, che ne diviene nel corso del tempo un vero specialista, e di cui questo titolo costituisce al tempo stesso il capostipite e l’esempio meglio riuscito: 20 episodi in 118 minuti, ognuno diverso per durata e per struttura, alcuni lunghi come dei piccoli film in miniatura, altri dei veri e propri sketch simili a una barzelletta.

Eppure, anche stavolta, la genesi dell’opera è a dir poco avventurosa. Questa: Il romano Elio Petri - che sarà ricordato per esser stato assieme a Franco Rosi e Damiano Damiani il massimo rappresentante del cinema di impegno civile degli anni ’70, soprattutto con i due capolavori scritti da Ugo Pirro e interpretati da Gian Maria Volontè, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1972) - al principio degli anni ’60, aveva esordito con L’assassino (1961), iniziando a rivelare un linguaggio assai originale, a cavallo tra il surreale e il grottesco. Nella primavera del 1963 viene contattato da Dino De Laurentiis che gli propone di girare un film con Alberto Sordi.

D’accordo con gli sceneggiatori, Age e Scarpelli, Petri si dice: “Questo Sordi ha fatto praticamente sempre personaggi mostruosi, facciamogli fare una serie di mostri in un film solo!” Forti di questa trovata, i tre autori si mettono a scrutare la cinica società italiana dei tempi con sguardo divertito e severo, ma probabilmente si spingono oltre un limite che il “cinema medio” degli anni sessanta non è ancora in grado di oltrepassare. Infatti Sordi si ritrae tiepido e De Laurentiis sbotta in uno storico: “Questo film fatevelo produrre da Togliatti!” Per nulla disposti a rinunciare, gli autori iniziano a declamare i passaggi più divertenti della sceneggiatura a casa di De Laurentiis; però mentre sua moglie, Silvana Mangano, si contorce dalle risate, il tycoon di Torre Annunziata rimane impietrito. Il progetto passa quindi a Mario Cecchi Gori, la regia a Dino Risi e la sceneggiatura a Scola e Maccari; che la integrano con altri episodi, espungendo le parti politicamente più scomode. Al posto di Alberto Sordi subentrano Gassman e Tognazzi.

Quando il film esce in sala, nessuno è ancora consapevole del fatto che esso costituirà al contempo l’apogeo della commedia all’italiana e il principio del suo declino; proprio la frantumazione in episodi spinge infatti alcuni osservatori a intonare il primo, prematuro, de profundis del genere, sostenendo che inizi proprio da lì quel lungo processo di involuzione che porterà nel volgere di qualche lustro la commedia all’italiana a immiserirsi nella deriva dei film commerciali e pecorecci.

Eppure, nei limiti di una caricatura per lo più farsesca, I mostri rimane ancora oggi la più crudele e impietosa radiografia, in presa diretta, della società del boom. Una satira sociale cattiva e piuttosto esplicita, se si pensa che si tratta pur sempre di film che avevano soprattutto l’imperativo inderogabile di far ridere. Che a dirigerlo, poi, sia un laureato in medicina specializzato in psichiatria come Risi spiega la spietatezza e il cinismo con cui la raffigurazione delle patologie del paese si tinteggia di grottesco, che a tratti assume persino gli aspetti del deforme e del ripugnante. Raggiungendo, probabilmente, il punto più estremo di drammaticità fisiologicamente tollerabile all’interno di una commedia.

Il film di Risi si trasforma col tempo in un autentico cult-movie, da cui saranno ricavati almeno due sequel: I nuovi mostri (1977) diretto dalla triade di registi più rappresentativa della commedia all’italiana, lo stesso Risi, Monicelli e Scola; e più di recente I mostri oggi (2009).

Dei venti episodi de I mostri il più celebre è senz’altro il più lungo e struggente, l’ultimo: “La nobile arte”, in cui Gassman tratteggia un altro personaggio indimenticabile, il pugile suonato, Artemio Altidori, che cade al tappeto al principio di incontro di boxe, né più e né meno come il Peppe de I soliti ignoti. Un episodio di straordinaria eloquenza narrativa, che svela platealmente come dietro la vis comica del film (e in fondo di tutta la commedia all’italiana e della società di cui essa era una radiografia), vive in filigrana un’inestinguibile amarezza.

La stessa dell’attore che stiamo oggi commemorando, il quale quando avrà perduto la baldanza della gioventù, mostrerà il suo lato più fragile e il più autentico. Dando a tutti la più drammatica delle conferme di quel che aveva da sempre sostenuto, per tutta la vita, ovvero che tra i due protagonisti del suo film più popolare, quello che ne ha definito i connotati caratteriali per antonomasia, Il sorpasso (si pensi che in Argentina sono convinti che sorpasso significhi spaccone!), lui, Vittorio Gassman, si sentiva più simile a Roberto Mariani che a Bruno Cortona; più affine al ragazzo timido e riflessivo, che allo spavaldo sbruffone che ha sempre interpretato, divertendoci.

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