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IL CINEMA CHE NON CONOSCI: Interruption- la recensione del film

Cinema

M.Beatrice Moia

Il cinema che non conosci si propone di aiutare a far scoprire quei film “minori” che, per budget o per scelte tematiche, rimangono un po’ nell’ombra mentre meriterebbero di avere spinte promozionali più significative e impulso distributivo più ampio e convinto. Come Interruption di Yorgos Zois in questi giorni al Cinemino di Milano e in altre sale d'Italia. A seguire la recensione del film. 

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INTERRUPTION: LA RECENSIONE

Cinema espanso, cine-teatro, arte contemporanea, performance art. O forse vita. Semplicemente. Nella sua verità e nella sua finzione. Nella sua confusione e nella sua trasparenza. Nelle sue contraddizioni e nelle sue linearità.  La vita di tutti i giorni, vissuta per alcuni momenti su un grande palcoscenico, soli, con tutti i riflettori puntati. E in altri momenti seduti in platea, in mezzo a tanta altra gente. Paragonare il film “Interruption” di Yorgos Zois alla vita, ai momenti ordinari e a quelli straordinari, con tutte le possibili chiavi di interpretazione, è forse il modo più banale, ma anche più semplice e più vero che si possa trovare per raccontare una realizzazione così particolare. Perché in realtà la vita è il macro-contenitore da cui parte il regista. E lì finisce per gettare, in modo apparentemente casuale, tutti gli spunti accennati nel film. Un contenitore forse più interessante dei contenuti, vari, diversi, lasciati più alla libera interpretazione dello spettatore che a una volontà di descrivere un chiaro significato. Tanti gli accenni che si sovrappongono e fanno riflettere: il teatro Dubrovka nel quale nel 2002 vennero sequestrati e tenuti in ostaggio ottocentocinquanta civili da parte di un gruppo di militanti ceceni; l’Orestea di Euripide e il tentativo di darne un’interpretazione moderna; gli attori chiusi in gabbia come per suggerire la necessità di un rinnovamento dei mezzi di comunicazione. Tematiche importanti e drammatiche che però, nel film, non trovano né soluzione né risposta precise. Così come anche il titolo Interruption è solo uno degli elementi inseriti nel contenitore: l’interruzione della finzione e l’inizio della verità. Ma questo è anche il lato interessante del film, che bombardando lo spettatore di tanti spunti diversi, lo sollecita a costruire personalmente il senso dell’opera. Dall’inizio alla fine. Da quando lo spettacolo viene interrotto dal presunto terrorista che in realtà non fa che “divertirsi” a dirigere i nuovi attori, ovvero gli spettatori che si rendono disponibili a salire sul palco. A quando la recita sembra trasformarsi in qualcosa di sempre più vicino alla realtà, per poi prendere la forma di un vero attacco terroristico e quindi tornare di nuovo nella finzione del palco. Il tutto orchestrato dalle indicazioni del coro, ovvero del presunto terrorista che si improvvisa regista. Cosa significa? Le risposte possono arrivare solo dagli spettatori. Proprio come nella vita, dove ognuno cerca le proprie strade. Vita che per tutti, in realtà, è simile. Dove ci sono momenti in cui tutto sembra trasparente, e altri in cui la realtà si confonde e si complica. E allora può capitare di domandarsi se la persona che abbiamo di fronte sia sincera o stia mentendo. Se noi stessi siamo sinceri con noi stessi o in realtà desideriamo altro. Tutte le dinamiche vissute sul palco dai protagonisti di Interruption sono in fondo le dinamiche della vita di tutti i giorni. L’unica chiara indicazione che ci arriva dal regista è, però, fonte di grande amarezza e profondo pessimismo: non siamo noi a guidare le nostre scelte. Se il contenitore della vita sembra avere un coperchio ermeticamente chiuso, secondo l’autore di Interruption forse le tante domande racchiuse all’interno sono destinate a rimanere senza risposte. A meno di ricollegare i fili interrotti, riaccendere la luce e risolvere l’Interruption. Ripartire è sempre possibile.