Dear Son, la lettera danzata a un figlio che parte per la guerra di Riva & Repele

Sono stati definiti “i poeti della danza”. Per la forza del loro vocabolario espressivo. Per la capacità di raccontare attraverso il movimento e il gesto anche storie che sembrano irraccontabili con la danza. Come la perdita di un figlio che parte per la guerra, al centro della loro creazione Dear Son, presentata al Roma Europa Festival che torna in scena a Sassari il prossimo 2 novembre, al Teatro Verdi, e sarà poi ad Arezzo e a Napoli il prossimo febbraio. Sasha Riva e Simone Repele sono due danzatori e coreografi che hanno dato vita a un duo creativo tra i più interessanti della scena europea degli ultimi anni. Un linguaggio innovativo il loro, che affonda le proprie basi nel classico per trovare un linguaggio contemporaneo che a tratti ricorda la potenza delle immagini del cinema. Li abbiamo raggiunti via Skype a Ginevra, dove vivono, e a Sky Tg24 hanno raccontato il loro lavoro di ricerca, la loro storia anticipando anche cosa porteranno nell’attesissimo Gala Les Étoiles diretto da Daniele Cipriani che per la prima volta arriva a Milano, al Teatro degli Arcimboldi, il 29 e il 30 novembre. Come e quando è nata l’idea di Dear Son, uno spettacolo che ha un tema così attuale? L’idea di Dear Son è nata casualmente un po’ di anni fa. Ci piaceva l’idea di parlare di una famiglia molto unita riflettendo su cosa accade a due genitori nel momento in cui perdono un figlio. Siamo partiti così da una situazione, quella di un figlio che decide di andare in guerra e poi non ritorna più. Potrebbe essere morto o scomparso, i genitori non lo sanno ma si ritrovano ad affrontare la perdita di un figlio che è un qualcosa di molto innaturale. Un anno fa qui a Ginevra, dove viviamo, c’era stato proposto di fare una serata intera legata a un’esposizione di fotografie che rappresentavano dei momenti della guerra. Abbiamo così pensato di sviluppare quest’idea che avevamo in testa da un po’. Il titolo richiama l’incipit di una lettera… Sì è così. In Dear Son l’immagine principale è quella di una donna anziana che si ritrova alla scrivania e cerca di scrivere una lettera al figlio. La coreografia parte proprio dall’inizio della lettera e questa è l’unica immagine principale, poi tutto quello che accade nasce solo dalle memorie di questa signora che ripercorre la sua vita. E poi c’è il tema molto forte della famiglia. Quando noi creiamo i nostri lavori c’è sempre qualcosa di molto personale. Siamo entrambi molto legati alle nostre famiglie. Per noi è importante portare sul palco un’emotività che ci lega e che è allo stesso tempo legata alla nostra vita. Come si affronta un tema del genere attraverso la danza? Come artisti e come coreografi ci piace immedesimarci anche in ciò che non abbiamo vissuto portando le nostre esperienze e la nostra sensibilità. Siamo circondati da immagini terribili di guerra ma anche di scomparse, di giovani che perdono la vita molto presto. Le storie degli altri aiutano in questo processo di immedesimazione che comunque non è assolutamente facile. Quando un genitore perde un figlio perde anche il senso della propria vita. Resta solo, in Dear Son, un briciolo di speranza che quel figlio possa tornare. Cosa che poi non accade. Questo concetto del tempo e dell’invecchiare è un tema che sentite molto… Sì assolutamente. In tutti i nostri lavori è molto presente il tema dello scorrere del tempo, delle fasi della vita. Riflettiamo spesso sulla velocità del tempo e ci proiettiamo con il pensiero a quando saremo anziani. La nostra professione è talmente breve che si sente inevitabilmente subito il ticchettio… sai di avere poco tempo per fare quello che ti piace. Avete uno stile molto personale che affonda le radici nella danza classica e ha qualcosa anche di molto cinematografico. Come è nato e come sviluppate il vostro lavoro di ricerca? Credo sia un mix che nasce anche dai coreografi con cui abbiamo lavorato come danzatori e che hanno sicuramente avuto un’influenza su di noi. Veniamo dall’Hamburg Ballet di John Neumeier dove la tecnica classica è importantissima. A Ginevra abbiamo lavorato con coreografi più vicini al teatro danza dove c’è una gestualità più forte che forse richiama anche il cinema. Siamo molto attenti ai dettagli, alle mani, a come si guarda un altro danzatore, a come ci si gira, come se ci fosse una camera puntata su quei dettagli. A volte diciamo proprio ai ballerini: “Pensa che ci sia la camera di Quentin Tarantino che zooma su di te”. A livello di immaginario ci hanno spesso ispirato anche i film di Ferzan Özpetek per esempio. Per noi un’altra cosa molto importante è lavorare sui ruoli. Oggi si tende più a cercare delle immagini invece noi in questo siamo ancora old fashion, ci piace lavorare entrando nella psicologia del personaggio. Ci piace creare con e per il ballerino per cui è importantissimo che anche il danzatore faccia una ricerca personale da portare poi sul palcoscenico. Per Dear Son avete scelto musiche di Gino Paoli, Claudio Villa o Fabrizio De André mescolate a composizioni di Ólafur Arnalds e Arvo Pärt. Un viaggio attraverso epoche diverse… Volevamo dare un’ambientazione a questa storia, abbiamo pensato all’Italia degli anni ’40. Abbiamo così ricercato musiche dei più grandi cantautori italiani scegliendo brani adatti alle varie scene. Abbiamo trovato poi il modo di connettere queste canzoni alle musiche più contemporanee e minimaliste per dare altre sfumature. Siete stati definiti i poeti della danza, vi ci ritrovate? Sicuramente è una definizione che ci piace molto perché per noi la danza è poesia. Si pensa sempre alla danza come bellezza ed estetica e anche per noi lo è ma a questo va aggiunto qualcosa di molto vero che viene da dentro. Noi cerchiamo sempre di dare un significato a tutto quello che facciamo, che cerchiamo di dire e di interpretare. Anche il lavoro di ricerca con i danzatori è una specie di conversazione nel linguaggio non verbale che esce fuori dal corpo. E questo è vicino alla poesia. Sarete anche tra i protagonisti del Gala Les Étoiles diretto da Daniele Cipriani che per la prima volta arriva a Milano, al Teatro degli Arcimboldi, il 29 e il 30 novembre. Cosa porterete? Un duetto che avevamo danzato anche a Ravenna in cui vogliamo rappresentare noi da anziani, per tornare a quanto dicevamo prima. Nella prima parte c’è una musica irish folk su un passo a due in cui si vedono due personaggi che si tengono ancora a braccetto, continuano a correre insieme per la stessa strada ma non si sopportano più. Poi inizia la musica di Simon & Garfunkel e nella seconda parte ripensiamo a tutti i momenti che abbiamo vissuto nella nostra vita. È un pezzo che nasce anche come dedica ad Amburgo perché il grande coreografo John Neumeier proprio su questa musica ha creato un famoso duetto dedicato a Maurice Béjart, Opus 100 -Für Maurice. È stato uno dei duetti che quando ero alla scuola ho amato di più e anche noi ci siamo conosciuti lì a scuola. Per cui è un pezzo che è legato al posto e al momento in cui ci siamo conosciuti e da dove tutto è partito. Nessuno avrebbe mai immaginato che ci saremmo un giorno ritrovati e che avremmo creato un nostro duo creativo.