Iconoclasts, la mostra sulle donne che infrangono le regole alla Biennale Danza

Rivoluzionarie, avventurose, radicali, professioniste determinate. Iconoclasts – Donne che infrangono le regole alla Biennale Danza è la mostra al Portego di Ca’ Giustinian che celebra coreografe, danzatrici e autrici che sono state invitate alla Biennale di Venezia a partire dai primi del Novecento. Dalla pioniera Isadora Duncan a Jia Ruskaja, futura fondatrice dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Da Martha Graham, madre della modern dance americana, a Pina Bausch, fondatrice del Tanztheater fino alle direttrici artistiche della Biennale Danza Carolyn Carlson , Karole Ermitage e Marie Chouinard. Un vero e proprio excursus che attraversa più di un secolo attraverso fotografie, documenti, filmati, carteggi. L’esposizione, a cura del direttore della Biennale Danza Wayne McGregor in collaborazione con Elisa Guzzo Vaccarino e l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee , è stata inaugurata lo scorso luglio in occasione dell’apertura del 18esimo Festival Internazionale di Danza Contemporanea e sarà visitabile fino a Carnevale. Una vera miniera per gli appassionati di storia della danza e non solo come ci ha spiegato la stessa Elisa Guzzo Vaccarino. Partiamo dal titolo Iconoclasts – Donne che infrangono le regole alla Biennale Danza. Come è nata l’idea e come si è sviluppato il lavoro di ricerca? Abbiamo avuto molte tentazioni. Io sono partita un po’ dall’idea del demone creativo femminile, poi la scelta di tutte le persone che ci hanno lavorato è stata per Iconoclasts. Wayne McGregor, che era un po’ il fautore di questo titolo, era particolarmente sorpreso dal fatto che in italiano dobbiamo precisare il genere, se maschile o femminile. Così è stato aggiunto il sottotitolo per richiamare il concetto delle donne. Donne creative, donne chiamate a offrire il loro talento spesso alla musica o tramite la musica. Come Tatiana Gsovsky, che firmò i movimenti per L’idiota , o Jia Ruskaja, presente al Festival di Musica di Venezia nel 1934 con Una favola di Andersen. All’epoca era un po’ l’eccezione, voleva dire rompere un tabù. L’idea che mi incanta è si tratta di qualcosa che oggi esiste ancora. Perché anche nei tempi in cui viviamo si continuano a rompere le regole in tanti modi. E devo dire che alla fine questo titolo neutro mi piace anche perché il non assegnare un genere è molto attuale. La mostra attraversa più di un secolo, dal 1903 al 2020. Un viaggio che parte da Isadora Duncan, una scelta forse inevitabile … In realtà è stato un tema di discussione. Ho voluto io che si iniziasse da Isadora, che avrei voluto anche sul manifesto della mostra ma poi è stata scelta giustamente Jia Ruskaja perché è stata la prima coreografa che ha lavorato effettivamente in Biennale negli anni Trenta. Ho insistito io per far partire questo viaggio dagli anni precedenti perché comunque Venezia, Biennale o non Biennale, era già un luogo dove mostrarsi. Non a caso, infatti, Isadora Duncan si fece fotografare dal fratello al Lido. Perché in quel momento anche se non si era coinvolti in uno spettacolo bisognava comunque esser a Venezia. Così la bellissima foto della stella dei cabaret parigini Josephine Baker con Serge Lifar, lei era la bella di ebano e lui il bello di bronzo. Avevano questi soprannomi e si mostravano comunque con una postura di balletto al Lido. Per me insomma era giusto riconoscere che nei primi del Novecento Venezia era un luogo dove per un artista era importante passare e farsi fotografare. I selfie dell’epoca avevano un valore prima ancora della Biennale e di qualunque altra cosa. Biennale Danza che arriverà solo nel 1999 con la direzione di una donna, Carolyn Carlson. La mostra attraversa quasi un secolo prima di questa data così importante. Il tutto in un allestimento a specchi, un modo per invitare il pubblico a riflettersi in queste donne rivoluzionarie? Beh sì, ognuno può rispecchiarsi in queste grandi personalità e trovare le riflessioni che vuole. Nella prima sala sono relativamente poche, russe o americane con una francese, Janine Charrat, che è della generazione di Roland Petit e di Maurice Béjart. Poi abbiamo tutte le leonesse d’oro e d’argento, ovviamente Carolyn Carlson ha uno spazio speciale così come lo hanno Martha Graham, che nel 1975 ha portato a Venezia molti suoi lavori, e Pina Bausch, che nel 1985 portò alla Biennale Teatro otto spettacoli su input di Franco Quadri. Nell’ultima stanza ci sono infine tantissime donne provenienti da tutte le parti del mondo. C’è una progressione nelle possibilità di mostrare il talento delle donne molto evidente. Anche quest’anno il Leone d’oro è andato a una donna, Cristina Caprioli, una coreografa e teorica assolutamente controcorrente… Pensando alle due ultime leonesse, Simone Forti lo scorso anno e Cristina Caprioli quest’anno, ci si trova in un mondo completamente diverso rispetto a quello anglosassone da cui proviene Wayne McGregor, un Paese dove comunque ti devi guadagnare il mercato. Loro hanno lavorato così sottotraccia, una in America e l’altra in Svezia, per amore del loro lavoro, di una spiritualità, di una loro concezione austera e rigorosa. Sono completamente controcorrente e credo che questo abbia affascinato McGregor. Hanno avuto la forza di portare avanti una loro visione senza essere condizionate da altri meccanismi. Spulciando negli archivi per recuperare i materiali necessari per la mostra avete trovato delle storie o degli aneddoti che vi hanno sorpreso? Siamo partiti con l’idea di andare a cercare negli annali, vedendo anno per anno la voce danza, balletto, festival. E più si cerca e più si trova. La base della mostra sono sicuramente i materiali di archivio ma in alcuni casi mancava la documentazione fotografica e l’abbiamo cercata dialogando con altre istituzioni. Di sorprese ne abbiamo avute tante. Per esempio io ignoravo completamente che Agnes de Mille, nipote del celebre regista Cecil B. de Mille, o Tatiana Gsovsky, che firmò i movimenti per L’idiota, fossero state a Venezia. E anche di storie ne sono venute fuori tante. Qualche esempio? Per esempio ho scovato negli archivi UNESCO di Bruxelles una lettera che Marta Graham scrisse al Comitato Unesco mentre si preparava per questo evento che avevano organizzato a Venezia nel 1975 in cui chiedeva come mai non fossero state invitate compagnie provenienti da Israele. Le risposero che la maggior parte dei Paesi che aderivano all’Unesco di quell’area del mondo erano arabi e non volevano saperne di Israele. Vennero invece dei ginnasti di arti marziali dell’allora Persia, c’era ancora lo Scià che voleva comprare Palazzo Contarini per farne un centro di cultura mediorientale. Nella Persia di quegli anni c’era un embrione di balletto ma lo Scià mandò degli “omaccioni” e gli studenti iraniani rifugiati in Italia, che studiavano architettura a Venezia, riconobbero in questo gruppo il capo della polizia segreta dello Scià. Scoppiò un pandemonio e i giornali di sinistra andarono all’attacco per fermare la loro esibizione. Ma ci pensò Dio Pluvio perché si trattava di uno spettacolo all’aperto e ci fu un bel temporale che mandò tutto all’aria. L’archivio storico della Biennale è una miniera di storie, ricordi, carteggi di e con i più grandi artisti del secolo scorso. Come sottolinea Wayne McGregor quando ci avventuriamo nel passato troviamo il filo conduttore con l’oggi… qual è? Ancora oggi spesso si discute sull’impostazione della Biennale Danza. Io ho lavorato quasi sempre per la Biennale, non con Carolyn Carlson ma con molti direttori e posso dire che la Biennale propone sempre artisti che solitamente non si vedono nei festival. I direttori qui hanno fatto sempre delle scelte diverse e questo ha fatto sì che a Venezia siano passate tutte le persone che erano necessarie, tutti gli artisti e i coreografi che hanno scritto la storia della danza. Mi sembra che questa sia la cosa importante al di là delle scelte di ogni singolo direttore. Facendo la somma possiamo dire che non è mai mancato nulla dai palcoscenici della Biennale.

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