Sold-out alla Milano Blues Sessions. In città un festival mancava da anni. Due serate con i giganti Billy Branch, Juke & The Jacknives e la Treves Blues Band
Cinque artisti, cinque stili
Cinque artisti, cinque stili. Sul palco della Milano Blues Sessions ogni appassionato ha avuto musica per le sue orecchie. C’era Giles Robson, classe '78, esponente della nuova generazione di bluesmen che fonde tradizione e innovazione. C'era Fabio Treves, il "Puma di Lambrate", con la sua Treves Blues Band. Il padre del blues italiano è da 50 anni sulle scene con il suo motto 'blues alle masse'. Un'armonica dal ritmo incalzante che nasconde una vera filosofia di vita. E poi il gigante in arrivo da Chicago, davvero un mostro sacro: Billy Branch con i suoi "Sons of The Blues" è considerato l'erede diretto della storica tradizione americana. La sorpresa si chiama invece Francesco Piu, con la sua chitarra acustica eclettica e travolgente. Ritmo e groove. Impossibile ascoltarlo da fermi: ha infiammato il teatro San Babila in pochi secondi. Infine "Juke" & The Jacknives, vera old school degli anni '40 dallo stile definito "rockin' blues". L'armonica di Egidio Ingala è uno strumento che graffia, usato per far vibrare le corde giuste e agitare i cuori. Juke sa coinvolgere: scende tra il pubblico, con armonica unplugged. Il festival raggiunge forse il suo momento più emozionante.
Una questione morale
“Il blues non è musica per pochi, è musica popolare” è sicuro Fabio Treves, che lavora a progetti per le scuole ed è un autentico 'divulgatore' del genere in Italia. La Milano Blues Sessions suona come un buon inizio. Già si parla dell'edizione del prossimo anno sempre in città, di iniziative nei dintorni e di eventi estivi. Perché è vero che il popolo del blues non se n'è mai andato, ma per vederlo tornare di moda serve più ascolto dal vivo. Di certo il pubblico è pronto: c'è domanda, c'è fermento. Se è vero che il blues è alla base del jazz, del rock, del pop e non solo, la voglia di tornare alle radici, alla chitarra-voce-armonica senza filtri né ballerini né coreografie, somiglia un po' al ritorno al cibo biologico dopo gli eccessi della raffinazione dell'industria alimentare. Una ricerca che rispecchia uno stile di vita, un approccio intimo. "Tutti possono suonare 'il blues' - spiega Juke Ingala - invece per 'suonare blues', qualcosa deve muoversi dentro". In fondo è una questione morale. Per dirla con il Puma di Lambrate, "chi ama il blues è per forza una persona buona".