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Quale confine tra rigore e violenza? Le denunce delle farfalle della ginnastica ritmica

Cronaca

Pamela Foti

Della differenza tra rigore e controllo, della funzione di educare, allenare, fino al concetto di “vittima non perfetta”. Anche di questo abbiamo parlato con Maura Gancitano, filosofa e fondatrice del progetto TLON, sullo sfondo del caso che coinvolge le Farfalle della nazionale di ginnastica ritmica

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Ore e ore a ripetere lo stesso accordo per trovare il suono giusto, oppure alla sbarra per stendere le ginocchia, o passate a memorizzare la battuta sul copione in cerca della giusta emozione. In qualsiasi campo, per raggiungere grandi obiettivi, serve disciplina. Ma qual è il confine tra rigore e violenza? Ne parliamo con Maura Gancitano, scrittrice, filosofa, divulgatrice e fondatrice del progetto Tlon scuola di filosofia, casa editrice e libreria teatro. E lo facciamo alla luce dello scandalo che coinvolge il mondo della ginnastica ritmica in Italia. Tutto è partito dalle denunce di due ex ginnaste plurimedagliate con la nazionale delle Farfalle, che hanno raccontato di abusi psicologici ricevuti dall’entourage azzurro, oltre che di digiuni forzati, pressioni costanti sul peso da mantenere e offese di ogni tipo. E le denunce ora stanno richiamando altre denunce.  (COMMISSARIATA L'ACCADEMIA DI DESIO - LE DENUNCE)

Chiariamo subito una cosa, la violenza psicologia è violenza. Ovunque, anche nello sport.

Quando si oltrepassa il confine tra rigore e abuso?

 

Il confine tra rigore e abuso si oltrepassa quando chi ha la funzione di educare, allenare, accompagnare le persone, le atlete in questo caso, pensa esclusivamente ai risultati, alle performance, e non a loro come persone. Ne consegue che tutte le parti di questi esseri umani vengano sacrificate annichilite, all'unico scopo di raggiungere la performatività. Ecco, questo secondo me è un abuso e chi educa oggi non può più non considerare tutti gli aspetti psicologici e non prendersi cura dell'intero essere umano: non semplicemente portare al raggiungimento di certi risultati, ma fare attenzione agli effetti che le azioni hanno nel presente e avranno nel futuro.

 

In questi giorni c’è chi si è chiesto perché le ginnaste abbiano denunciato solo ora.

Un atteggiamento che credo possa rientrare nel “victimg blaming”. È d’accordo? Può spiegarci di cosa si tratta?

Il victim blaming è quell'azione per cui si colpevolizza la vittima perché non ha denunciato nel tempo giusto la violenza, magari l'ha denunciata molto tempo dopo e non si è comportata come avrebbe voluto. Quindi, anziché cercare di capire cosa è accaduto e chi ha sbagliato, si colpevolizza la vittima per non essere stata una vittima perfetta: o perché la giudichiamo troppo debole, non abbastanza forte, o magari perché certe cose non sono così gravi e avrebbe potuto comportarsi meglio o appunto perché ha sbagliato i tempi. Questo è molto grave perché ha un effetto psicologico sulla vittima, ha un effetto anche sulla sua reputazione sociale e sposta l'attenzione dalle vere cause, ovvero da chi ha sbagliato davvero e dai fenomeni e dalle dinamiche che si sono venute a manifestare. Quindi, è molto importante sia per l'opinione pubblica che per il giornalismo non fare mai victim blaming ma rimanere sul tema che viene sollevato.

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Nel caso delle denunce delle ginnaste si parla anche di lucchetti alle mensole per non farle mangiare, intestino distrutto dai lassativi, pesate pubbliche anche più volte al giorno e dileggi.

In sport come la ginnastica si controlla da sempre il peso, elemento fondamentale nelle prestazioni. Ma il controllo ossessivo può generare mostruosità?

Il controllo ossessivo può generare mostruosità perché chi educa, chi allena al controllo ossessivo, in realtà sta educando la persona a fare lo stesso nei propri confronti. Tutto ciò ha un effetto devastante e si basa su un assunto che oggi sappiamo essere falso. Creare riprovazione sociale nei confronti di una persona, esporla al pubblico ludibrio, alla gogna pubblica o farla vergognare, disgustare di se stessa, non ha un effetto sulle sue azioni, non spinge al cambiamento dei comportamenti, non porta la persona a comportarsi in maniera migliore. Anzi, di solito la blocca, la irrigidisce, con effetti devastanti su tutti gli aspetti della sua vita. In realtà, chi allena può allenare a fare attenzione anziché controllare, governare se stessi anziché diventare giudici terribili che si muovono nell'orizzonte del disgusto della vergogna di sé.

 

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Come si impara a capire chi ha bisogno di aiuto? Quali segnali dovremmo riconoscere e invece ancora oggi non siamo in grado di interpretare?

Oggi dovremmo renderci conto che l'idea di avere il controllo sulla nostra vita, sui nostri comportamenti, è quasi sempre qualcosa di insano. Purtroppo, veniamo spinti a questo, veniamo spinti a un monitoraggio a una sorveglianza eccessiva verso di noi e, di conseguenza, si emettono giudizi anche verso le altre persone. Dal mio punto di vista, ciò che è importante è rendersi conto che il modo in cui noi guardiamo noi stessi è i modo in cui guardiamo gli altri. A  a me interessa anche capire cosa succede nell'ambito della ricerca scientifica, nell'ambito dello studio del modo in cui effettivamente guardiamo le cose. È sempre più chiaro che il modo in cui guardiamo il mondo non è neutro, non è innato, ma dipende dal modo in cui siamo stati educati, e uno di questi è legato proprio all'immagine corporea. Quindi, è importante fare attenzione a come educhiamo le persone più giovani a vedere il proprio corpo e i corpi degli altri.

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Come si impara a chiedere aiuto, come si educa alla consapevolezza?

 

Dal mio punto di vista chiedere aiuto, acquisire consapevolezza, significa rivolgersi a qualcuno per iniziare un percorso di terapia personale. Significa rendersi conto di quanto certi meccanismi, certi condizionamenti, facciano parte di dinamiche sociali. Significa accorgersi di quanto il nostro sguardo dipenda dal modo in cui siamo stati portati a vedere le cose,. Significa capire a cosa diamo valore e cosa consideriamo un valore in sé, quanto questo ci spinge a sentirci inadeguati mai abbastanza. È importante riconoscere tutto questo e, di conseguenza, riconoscere l'origine sociale e storica del modo in cui viviamo le cose che molto spesso ci rende così difficile essere felici di quello che stiamo facendo, essere felici del momento, dell'istante che stiamo vivendo.

 

Sullo sfondo di questa vicenda resta un altro interrogativo. Scomodo e doloroso. Senza voler colpevolizzare nessuno, è possibile che un genitore non si accorga che il figlio vive un disagio tanto grande?

Cosa subentra? La fiducia nell’allenatore, l’accettazione di regole rigide in cambio di successo?

È molto difficile fare un discorso in generale sui genitori però credo che oggi essere genitori significhi fare attenzione non solo ai tentati successi, agli obiettivi raggiunti, alle performance dei propri figli, ma anche allo stato di salute mentale, alla condizione di felicità. Probabilmente, in questi anni le figure genitoriali sono state spinte a cercare di far raggiungere ai propri figli determinati obiettivi anziché domandarsi se fossero o meno felici. Ecco, dovremmo smantellare questa idea che la performatività, il raggiungimento dei risultati, possa renderci felici. Non è affatto detto. Dovremmo invece considerare se ci sentiamo oppure no in fioritura. Questo dovrebbero considerarlo i genitori nei confronti di loro stessi anche per non rovesciare i propri desideri, le proprie aspettative, sui figli.

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