Tunisia,
in viaggio con i migranti
Le storie di chi cerca di attraversare il Mediterraneo, di chi raccoglie i cadaveri e di chi si oppone ad un regime sempre più illiberale

Ma cosa sono i migranti, cosa vogliono? Sognano l’Europa e una vita migliore, o anche solo una possibilità, e per averla sono disposti a soffrire, a viaggiare per anni e anche a rischiare la morte nella traversata del deserto o del mare. Le cifre parlano e sono in aumento, soprattutto gli arrivi dalla Tunisia. Ma, eccezion fatta per i tunisini che decidono di tentare la traversata, che comunque non sono pochi, chi cerca la via dell’Europa lo fa a casa sua, nel paese di origine, che sia il Mali, la Siria, il Burkina Faso o il Bangladesh dove chi parte sente di non avere una prospettiva di futuro. La Tunisia per loro non è che un passaggio.
Tanti di loro dicono che si può diventare qualcuno solo in Europa. Ecco, il sogno dell’Europa che le nostre ricche società alimentano in questi giovani africani sembra doppiamente ipocrita. Intanto perché l’Europa è chiusa verso i nuovi arrivi, tanto che anche i tunisini, a meno che non siano molto benestanti, non possono venire a fare i turisti da noi, ma devono prendere il mare.
E poi perché, dentro questo sogno non c’è spazio per la realtà che invece conosciamo bene. E cioè che i migranti clandestini, che arrivano senza documenti e senza diritti, per bene che gli vada finiscono a rimpolpare le fila di quello che una volta si sarebbe definito sottoproletariato, urbano o rupestre che sia. Posto che ce la facciano ad arrivare vivi sulle nostre coste, dopo anni di sofferenze, privazioni e vessazioni. Da parte dei trafficanti di ogni etnia e colore, ma anche da parte delle società civili dei paesi di passaggio, come la Libia delle tante milizie armate e la Tunisia della svolta autoritaria del presidente Kais Saied.
Il viaggio dei migranti, e le difficoltà che devono affrontare durante il percorso, proviamo a raccontarvele attraverso quattro incontri che abbiamo fatto in Tunisia: un pescatore della costa di Sfax, un intellettuale di Tunisi, oppositore del presidente Saied, un ragazzo del Mali che è partito nel 2018 e aspetta di attraversare il Mediterraneo e una coppia di giovani con un bambino, figlio di lei ma non di lui, che abbiamo incontrato sulla litoranea: avevano provato invano a imbarcarsi e in questo tentativo hanno perso tutto, anche le scarpe.
Omar, il pescatore che raccoglie cadaveri

Omar non vuole più mangiare i pesci che porta a casa con la sua rete. Omar è un capitano, ha un peschereccio e in questo mare ha raccolto troppi cadaveri. Il villaggio dove abita insieme alla famiglia si chiama La Louze, 40 chilometri a Nord di Sfax, ed è uno dei principali punti di partenza dei migranti dalla Tunisia alla volta dell’Italia, in particolare di Lampedusa.

Lo incontriamo perché ci viene a chiamare urlando sulla spiaggia: i suoi amici stanno partendo in gozzo per cercare un barchino di migranti che sarebbe affondato poco dopo la partenza all’alba. Mentre ci facciamo spiegare cosa è successo gli amici partono verso il largo, ma non troveranno nessuno. Omar intanto è un fiume in piena. Il suo racconto è fatto di cadaveri, di bambini morti, di trafficanti feroci. E per corroborare quanto dice ci mostra le foto e i video di tutto quello che racconta.

Omar, pescatore di La Louze, a 40 chilometri a Nord di Sfax in Tunisia
Omar, pescatore di La Louze, a 40 chilometri a Nord di Sfax in Tunisia
“Non ce la facciamo più a vivere qui, quasi ogni giorno ci sono partenze, e dopo 24 ore vediamo i cadaveri arrivare sulla riva. Perché questi barchini in metallo affondano quasi tutti, per me al massimo il 10 per cento di chi parte arriva a Lampedusa. E poi il viaggio è lungo, ci vogliono almeno 20 ore, ma c’è chi è rimasto in mare anche 3 giorni”.
Omar si sfoga con noi, ce l’ha in particolare con i trafficanti senza scrupoli che mandano a morire i migranti africani a bordo di barchini fatti di lastre di metallo saldate a mano nei cortili delle loro abitazioni. Una mafia che per ogni partenza incassa tra i 40 e i 60 mila euro, a fronte di una spesa minima. Un giro d’affari da decine se non centinaia di milioni di euro. “Stanno diventando ricchi rapidamente, vanno in giro con macchine grandi, ma sono gente senza scrupoli, siamo tutti terrorizzati da loro. Anche la polizia non entra nel villaggio dove producono le barche” ci spiega Omar, pregando di non fornire dettagli che possano far risalire a lui, ha paura della vendetta dei trafficanti.
Ma soprattutto la sua famiglia è terrorizzata. La mamma piange spesso e suo figlio non vuole più andare a scuola, perché la strada passa per il lungomare dove troppe volte ha visto i cadaveri sulla riva: “Te lo giuro – ci dice Omar – un giorno ho visto un bambino morto sulla spiaggia e c’era un cane che gli stava mangiando i piedi. Ci sono troppi morti, troppi barchini affondano. Tante volte ripeschiamo i loro corpi in mare. E poi sul fondo qui a largo ci sono centinaia di barche di metallo affondate, lo sappiamo perché tagliano le nostre reti da pesca, rovinandoci anche il lavoro”.
Omar è un brav’uomo distrutto dalla violenza di quello che vede. Gli effetti mortali della migrazione. È esterrefatto perché gli sembra di non poter far nulla, né fermare i trafficanti, né i migranti: “Io glielo dico agli africani, ma dove andate? È pericoloso, c’è vento, la barca non è sicura. Ma loro non conoscono il mare, e poi mi rispondono che devono andare, che nei loro paesi c’è la guerra o non c’è niente da mangiare. Mi rispondono che in Africa non possono tornare”.
D’altra parte, anche se vorrebbe, neanche Omar può spostarsi e sfuggire al suo destino, la sua casa è qui e non ne ha un’altra, così come la sua barca è sempre all’ancora davanti al molo. Omar deve restare dove sta. Da qui, lui e la sua famiglia sono costretti ad essere spettatori dolenti della traversata del Mediterraneo da parte dei migranti subsahariani. Una traversata che nelle sue parole, gonfie di dolore, prende la forma di una strage silenziosa e quotidiana.
Il viaggio di Traore

Il viaggio di Traoré non è ancora finito, ma a 19 anni lui è già andato avanti e indietro per l’Africa come non facevano neanche gli esploratori europei. Partito dal Mali nel 2018, quando aveva 16 o 17 anni, è arrivato in Algeria, poi la Libia, dove ha tentato la traversata, visto Lampedusa da lontano, ma poi è stato fermato dalla guardia costiera libica e messo in prigione. Lì ha subito torture e visto omicidi, quindi è riuscito a uscire. Dalla prigione e dal paese, tornando in Algeria, nell’oasi di Tamanrasseet, in pieno Sahara, lontano da tutto. Da qui di nuovo il deserto e finalmente la Tunisia. Dove lo incontriamo. A Sfax Traoré cerca lavoro per provare ad attraversare ancora il Mediterraneo. Sperando di sopravvivere. È giovanissimo, ma sembra abbia già vissuto molte vite.
Algeria, lavoro a pochi soldi
Traoré è partito dal Mali perché i genitori non avevano i mezzi per farlo studiare dopo la scuola, e perché nel suo paese non aveva alcuna possibilità di lavorare: “Ma pensate davvero che se avessimo da lavorare a casa nostra non preferiremmo restare lì con i nostri amici e i nostri parenti? Perché mai dovemmo andarcene? Mai nella vita”. Traoré dalla capitale Bamako è arrivato fino a Timbuctu, da dove partono i convogli che attraversano il Sahara verso l’Algeria, verso l’oasi di Tamanrasset. Un viaggio difficile, fatto a bordo di pulmini dove i migranti vengono stipati all’inverosimile, anche 30 alla volta. Bisogna pagare il passaggio, ma soprattutto sperare di non essere picchiato dai trafficanti o peggio di non essere abbandonato nel deserto, che non perdona. Sono tantissimi i migranti che muoiono attraversando il Sahara. Una volta arrivato in Algeria Traoré ha dovuto lavorare, perché i soldi che aveva con sé se ne erano già andati tutti. Poi però ha provato a spostarsi, perché i neri in Algeria sono pagati pochissimo, e la moneta locale è particolarmente debole. Quindi anche se guadagnava metteva troppo poco da parte.

La prima parte del viaggio di Traoré, dal Mali fino alla Libia fin quasi a Lampedusa
La prima parte del viaggio di Traoré, dal Mali fino alla Libia fin quasi a Lampedusa
Libia, l’incubo peggiore
Traoré sceglie quindi di andare in Libia. E adesso se ne pente. Quella è stata infatti, finora, la parte più difficile della sua migrazione. In Libia, infatti, dopo qualche mese di lavoro ha tentato la traversata, arrivando a 20 chilometri da Lampedusa. Ma lì, quando l’Europa era ormai visibile all’orizzonte, la sua barca è stata fermata dalla guardia costiera libica, anche se lui giura che la cosa era illegale perché erano ormai arrivati in acque internazionali. Armati e minacciosi, i libici hanno cominciato a sparare in aria, li hanno imbarcati e hanno picchiato il capitano. Poi dal porto di Tripoli sono finiti tutti in prigione. Dove è cominciato l’incubo peggiore. Prima di entrare gli hanno tolto tutto quello che aveva.

La seconda parte del viaggio di Traoré, da Tripoli a Sfax
La seconda parte del viaggio di Traoré, da Tripoli a Sfax
Poi, una volta dentro, ci ha spiegato esci solo se qualcuno paga il riscatto per te. Il cugino, con cui viaggiava è riuscito a uscire. Lui è rimasto dentro e dopo qualche settimana in condizione estreme ha tentato la fuga insieme ai compagni di cella. Una iniziativa che lo ha quasi ucciso. La polizia ha infatti prima sparato a casa uccidendo un sudanese, poi ha iniziato il pestaggio sistematico dei prigionieri: “Non me lo scorderò mai. Ci hanno picchiato dalle 10 della mattina fino al giorno dopo alle 21. Si davano il cambio, se una squadra era stanca di picchiare usciva e entrava un’altra fresca, e così via. Un beninese è morto. E il giorno dopo ci hanno fatto seppellire i cadaveri. Non è stato facile”. Dopo questo racconto Traoré si mette a piangere e ci racconta che in carcere è rimasto altri tre mesi, finché il cugino non è riuscito a raggranellare un po’ di soldi per pagare il riscatto alla mafia araba, facendolo uscire.
Di nuovo Algeria e poi in Tunisia

Traoré, 19 anni del Mali, ha lasciato il suo Paese nel 2018 per provare a raggiungere l'Europa.
Traoré, 19 anni del Mali, ha lasciato il suo Paese nel 2018 per provare a raggiungere l'Europa.
Una volta pagato il riscatto Traoré è scappato dalla Libia appena ha potuto. Per tornare in Algeria, ancora a Tamanrasset. Di nuovo a migliaia di chilometri dal mare. E dall’Europa. Di nuovo mesi di lavoro pagato male per provare nuovamente a spostarsi, ad avvicinarsi al sogno. Che questa volta si chiama Tunisia. Per arrivarci però bisogna affrontare le montagne intorno a Kasserine, la città tunisina al confine con l’Algeria che è la porta di ingresso per molti migranti subsahariani. Da lì a Sfax è poca cosa, se riesci a salire su un autobus, il che ormai per un nero in Tunisia non è scontato. In tanti devono farsi la strada a piedi perché vengono rifiutati.
La vita a Sfax
Arrivare a Sfax sembra un successo, dopo tutto quello che ha passato. Ma in realtà le cose sono difficili anche in Tunisia, in particolare dopo il discorso del presidente Saied a febbraio, in cui sosteneva che ci fosse un complotto per la sostituzione etnica degli arabi con gli africani neri, discorso che ha scatenato una ondata di attacchi xenofobi contro i subsahariani. Gli attacchi sono scemati, ma la diffidenza degli arabi verso i neri è rimasta. Ma soprattutto la polizia è in stato di massima allerta, anche perché le partenze dalle spiagge intorno a Sfax sono a livelli mai raggiunti prima. Trovare lavoro è difficile, così come avere un tetto sotto cui dormire. Quando abbiamo sentito Traoré l’ultima volta dovevamo andarlo a trovare a casa. Aveva convinto i suoi coinquilini a farci entrare. Poi, nottetempo, la polizia ha fatto irruzione nel suo quartiere e tutti gli africani subsahariani sono stati sgomberati. Traoré non poteva quindi invitarci a casa e si è scusato, perché una casa non ce l’aveva più.
Il suo viaggio infinito continua, e andando avanti le cose non sembrano migliorare. Lui vuole l’Europa. Questo vuol dire che lo aspetta ancora la parte più pericolosa, la traversata verso l’Italia a bordo dei barchini in metallo costruiti dai trafficanti tunisini. Moltissimi affondano, e Traoré lo sa, ma sente di non avere scelta: “Siamo in trappola, qui la vita per noi è pericolosa, non troviamo lavoro, siamo obbligati a partire. Se trovo un’opportunità mi prenderò il rischio e partirò, non importa in quale paese finirò, basta che sia in Europa”.
A piedi sulla Statale

Lui è scalzo, lei no. L’incontro è fugace ma è di quelli che restano nella memoria. Non sappiamo i loro nomi, per noi sono lei e lui e tali resteranno. Vengono dalla Guinea Conakry. Sembrano una coppia, ma non lo sono. Giovanissimi, belli, innocenti e senza niente con sé a parte due bottiglie di acqua.
Li incontriamo che camminano sotto al sole di mezzogiorno sulla statale che corre a nord di Sfax, quella che viaggia parallela alle spiagge da cui partono i migranti subsahariani alla volta di Lampedusa. Lei ha in braccio un bambino piccolo, lui al collo ha la camera d’aria di uno pneumatico che doveva servirgli da salvagente durante la traversata verso l’Italia. Hanno provato a partire ma non ce l’hanno fatta.
La loro innocenza è stupefacente, nonostante le difficoltà che già hanno dovuto affrontare nella vita. Lei, ad esempio, è passata dalla Libia dove prima ha partorito e poi è stata in carcere insieme al suo piccolo. Il padre se ne è tornato in Guinea abbandonandola lì.

I due ci raccontano di come è andata la partenza, con i trafficanti che li imbrogliano, gli mentono, gli danno motori da 30 cavalli per trasportare 40 persone, gli fanno vedere la barca solo una volta arrivati a mare. Ed è una barca in metallo, con le saldature fatte a mano, di quelle che affondano facilmente, basta uno sguardo per capirlo. Ma loro ci sarebbero saliti comunque e avrebbero provato a partire, anche se sanno che si rischia la morte. Se non sono andati è perché i trafficanti gli hanno detto che il tempo non era buono e perché il motore era troppo piccolo. Altrimenti sarebbero partiti.
Adesso non hanno più niente. Ci spiegano infatti che a bordo si sale scalzi e senza nient’altro che i vestiti che si possono indossare. Lei poi non è riuscita a recuperare le sue scarpe, e allora lui gli ha dato le sue, “perché lei è donna mentre io sono uomo, posso tranquillamente andare scalzo”. Devono tornare a Sfax a piedi sotto il sole, sono oltre 40 chilometri di cammino e non possono prendere gli autobus, perché nella maggior parte dei casi in Tunisia non fanno più salire a bordo i neri subsahariani. Se gli va bene ci metteranno tra le 9 e le 10 ore. Poi dovranno trovarsi di nuovo una casa e ricominciare a lavorare. Per mettere insieme i soldi di una nuova partenza gli ci vorranno almeno 4 o 5 mesi.

Prima di andare via chiediamo a lei perché prova a partire anche se ha un bambino piccolo e si rischia la morte. La sua risposta è disarmante: “E’ per lui che me ne vado. Per lui. Perché suo padre lo ha abbandonato”. Quando insistiamo a chiederle se quindi ci riproverà, non ha la forza di rispondere. Accenna solo di sì con la testa.
Mohammed, il professore oppositore

Sui diritti umani l’Europa si guardi allo specchio. Parlare con Mohamed è stata una esperienza notevole, dal punto di vista intellettuale e umano. L’uomo è coraggioso, senza essere spavaldo. Ed è uno studioso solido, con preparazione enciclopedica. Le analisi che fa sulla Tunisia, sull’Italia, e sulle relazioni economiche, sociali e culturali del bacino del Mediterraneo, che si condividano o meno, sono molto centrate.
(dida salvata) Mohamed Sahbi Khalfaoui, ricercatore e studioso di Scienze politiche all’Università Jenduba di Tunisi
Mohamed Sahbi Khalfaoui, insegnante, ricercatore e studioso di Scienze politiche all’università Jenduba di Tunisi e membro fondatore dell’osservatorio tunisino per la transizione democratica, era tra gli attivisti in piazza tra il dicembre 2010 e il gennaio 2011 in quella che è passata alla storia come la rivoluzione dei gelsomini, la prima delle primavere arabe e, si pensava, la più riuscita. Quella che confluì nella costituzione del 2014, portata ad esempio come possibile via alla transizione democratica nei paesi arabi. Che è poi il cuore dello studio accademico di Mohamed.
Appena si siede, in una saletta interna di un affollato bar davanti alla medina di Tunisi, anche perché lo stimoliamo su quello, comincia subito a parlare del presidente Kais Saied, che quella costituzione ha abolito con un colpo di spugna. Ci dice senza mezzi termini che quello del 25 luglio 2021 è stato un colpo di stato e non un correttivo sulla via della rivoluzione come lo ha presentato Saied.
Mohamed è un oppositore di Saied. E’ ben consapevole, e ce lo dice subito, che a criticare il governo si rischia di andare in prigione adesso in Tunisia, tanti esponenti dell’opposizione sono in carcere, ma lui comunque continua ad andare a parlare in trasmissioni radio e televisive perché “il mondo accademico non può smettere di sentirsi libero di dire quello che pensa”. Ne va, in effetti, della libera ricerca.

Il bar dove abbiamo incontrato Mohamed Sahbi Khalfaoui, ricercatore e oppositore del presidente Kais Saied
Il bar dove abbiamo incontrato Mohamed Sahbi Khalfaoui, ricercatore e oppositore del presidente Kais Saied
Con la sua analisi spiega come nel paese si sia innescato un sistema di paura e anche di delazione da quando il presidente ha avocato tutti i poteri a se stesso sospendendo il Parlamento e la Costituzione. La nuova costituzione, che poi Saied ha fatto approvare con larga maggioranza, prevede enormi poteri per il presidente, che nomina i giudici della Corte costituzionale e il secondo ramo del Parlamento. La separazione dei poteri è un lontano ricordo, come l’indipendenza della magistratura e delle Camere. Alle elezioni legislative ha votato meno del 9% degli aventi diritto. Un’affluenza record, in negativo. Tra i dati peggiori del mondo.
Questo perché tutti i partiti di opposizione hanno boicottato il voto, visto che la nuova costituzione prevede che si possano presentare solo candidati singoli, e non legati ai partiti. Cioè di fatto esclude i partiti dalla contesa elettorale. Mohamed ci spiega quindi che il governo Saied, con la concentrazione di tutti i poteri nelle mani del presidente, sembra presentare tutto l’armamentario tipico dei regimi autoritari che evolvono in dittatura, ma non siamo ancora a questo punto. “In Tunisia - ci dice - c’è ancora un certo grado di libertà, il problema è che queste libertà adesso sono molto più difficili da difendere di quanto lo fossero prima del 25 luglio 2021, e purtroppo le libertà si erodono piano piano”.

Il capo del sindacato dei giornalisti tunisini Mahdi Jlassi.
Il capo del sindacato dei giornalisti tunisini Mahdi Jlassi.
È però quando si parla di diritti umani e di migranti che il pensiero di Mohamed scarta e sorprende. L’Europa chiede che i diritti umani vengano rispettati in Tunisia, e così il Fondo monetario internazionale. E da questo fa dipendere l’erogazione di 2 miliardi di dollari vitali. Tutto bene, tutto vero, ci dice Mohamed. Ma innanzitutto la Tunisia non è e non vuole essere il poliziotto dell’Europa. Sono le stesse parole che ha pronunciato proprio il presidente Saied a Von der Leyen e Meloni quando sono venute a Tunisi. Ed è lo stesso concetto che ci ha ripetuto anche uno dei pochi altri esponenti della società civile che ha avuto il coraggio di esporsi contro le politiche liberticide del governo, il capo del sindacato dei giornalisti Mahdi Jlassi.
Per Mohamed “l’Europa non ha alcuna comprensione delle situazioni che spingono le persone a rischiare di morire e di annegare nel Mediterraneo pur di non restare a casa loro. Tratta la Tunisia solo come un problema di sicurezza, e non come un partner o un paese vicino, quando ci sono solo 60 km tra le nostre coste. Non è proprio in questione l’idea di farci diventare un poliziotto, di farci installare centri di detenzione, in modo che la repressione si faccia qui, e non nei paesi di origine dei migranti subsahariani o in Europa. E poi ci si dimentica che anche i tunisini vogliono venire in Europa per cercare un avvenire migliore”.
E’ qui che Mohamed fa emergere la grande ipocrisia dell’Europa sulle migrazioni, e sui diritti umani: “L’immigrazione clandestina è cominciata quando l’Europa ha imposto dei limiti alla libera circolazione degli essere umani. Tu sei italiano, immagino ti sia bastato far vedere il tuo passaporto per venire in Tunisia. Per andare in Europa, o in un altro paese del mondo noi tunisini invece dobbiamo fare un percorso a ostacoli, solo per avere il diritto di andare a vedere il mondo, visitare i monumenti italiani, francesi o tedeschi. Quindi innanzitutto bisogna parlare di questo diritto basilare di cui gode l’uomo del Nord e non l’uomo del Sud del mondo, quello della libera circolazione, che è un diritto umano fondamentale. L’occidente deve guardarsi allo specchio e farsi una domanda sul proprio rispetto dei diritti umani”. Il concetto è lo stesso espresso anche da Franc Yotedje, direttore dell’Ong Africa Inteligence di Sfax: “La migrazione è inerente all’essere umano. Pensare di avere una soluzione contro la migrazione significa voler lottare contro la natura umana, perché l’uomo si sposta, si muove. Ce lo insegna la storia”.

Franc Yotedje, direttore dell’Ong Africa Inteligence di Sfax
Franc Yotedje, direttore dell’Ong Africa Inteligence di Sfax
L’unica prospettiva è che paesi del Sud e del Nord del mondo collaborino realmente come partner, perché “tutte le soluzioni in nome della sicurezza faranno magari la felicità dell’estrema destra europea, perché migliorano la situazione interna di loro paesi, ma sono temporanee e finiranno con il provocare una esplosione sociale ed economica qui in Africa e in Tunisia che avrà ripercussioni disastrose sull’Europa, perché non dovremo più controllare barche da 18/20 o 50 migranti, ma barche che porteranno migliaia di migranti”. L’Europa quindi è chiusa, egoista e peraltro sbaglia strategia. Non solo: non possiamo proprio dare lezioni a nessuno sul rispetto dei diritti umani.
Il professor Mohamed, oppositore di Kais Saied, non le manda a dire a nessuno, a partire dal suo presidente. Ma la parte più severa la riserva a noi europei, ipocriti perché attaccati ai nostri privilegi. Come sempre.
Testi e fotografie: Jacopo Arbarello; Dati e mappe: Raffaele Mastrolonardo; Coordinamento editoriale: Marianna Bruschi