Fronte del Volga

L'identità russa e le radici della guerra

Luglio 2023, seconda estate di guerra. È da poco rientrato lo show down del duello - vero o inscenato - tra Evgenij Prigozhin e Vladimir Putin, culminato con la minacciata marcia su Mosca da parte del boss della Wagner. Il nostro lungo viaggio in Russia – che abbiamo raccontato con una trilogia di video reportage in esclusiva per Skytg24 in partnership con il Pulitzer center di Washington DC - coincide con uno dei momenti di maggiore tensione e incertezza nel Paese dall’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022. Sembra impossibile che nell’era dell’informazione globale a getto continuo, tanto poco si sappia del Paese che ha fatto saltare l’ordine internazionale e scatenato un’offensiva antioccidentale sull’onda di una pianificata escalation neo-imperiale. Un buio forse ancor più pesto che ai tempi più cupi dell’Urss.

L'altra guerra

La Russia ha gli occhi di tutto il mondo puntati addosso, ma una cosa è osservarla dall’esterno, oppure analizzare da Mosca le mosse politiche, propagandistiche e militari del regime sul fronte ucraino e su quello interno, un’altra è provare a capire da dentro, lontano dalla capitale, come il Paese vive la guerra, come reagisce alle sanzioni e alla rottura violenta con l’Europa e l’America, che cosa si aspetta dal futuro. Da molti decenni la Russia non è mai stata così lontana e misteriosa, un mondo sconosciuto, quasi un altro pianeta. E la ragione principale è perché il regime fa la guerra anche all’informazione straniera, impedisce con ogni mezzo ai giornalisti di mettere il naso fuori dai perimetri ufficiali e controllati. Nega visti e permessi, arresta e imprigiona chi viene colto lì dove non dovrebbe stare.

Per quasi un mese abbiamo attraversato la Russia senza incontrare un forestiero. Per seimila chilometri, da Nord a Sud, da San Pietroburgo ad Astrakan - passando per Tver, Dubna, Rybinks, Jaroslav, Nizhniy Novgorod, Kazan, Uljanovsk, Samara, Saratov, Volgograd… - non abbiamo ascoltato altra lingua che il russo. Una condizione mai provata prima. Che, nella Russia paranoica di Putin, soffocata dal controllo dell’FSB, i servizi di sicurezza eredi del KGB, genera inquietudine e a volte panico. Soprattutto se si va in giro a fare domande, foto e riprese. Senza sapere se chi incontri, per quanto disponibile a parlare, ti potrà segnalare o denunciare. Abbiamo viaggiato senza mai separarci un attimo e senza mai smettere di guardarci intorno, per strada, al ristorante, al bagno o di controllare le auto che ci stavano dietro, fosse in città, nei villaggi o nelle infinite camionabili della steppa.

Siamo partiti con l’ambizione di provare a capire che cosa vuol dire essere russi oggi, nell’estate 2023. La nostra rotta maestra è stata il fiume Volga. Perché è dove tutto è cominciato. È l'epicentro dell'identità russa, l'arteria che ha nutrito l'anima russa fin da quando i vichinghi navigarono lungo il Volga e fondarono la prima Rus'. Scorre da Nord a Sud, dalla regione baltica fino alla terra dei ciuvasci, dei tatari, dei calmucchi, dei cosacchi. Era la principale via commerciale dell'impero russo tra l'Asia e il Baltico. Caterina II, appena conquistato il potere, fece il suo primo viaggio nel suo impero navigando lungo il Volga per conoscere i numerosi gruppi etnici e religiosi. Il Volga nasce tra San Pietroburgo e Mosca, scorre nella Russia centrale e raggiunge la Russia meridionale fino al Mar Caspio, quasi alle porte dell’Iran. È il fiume più grande d'Europa. Attraversa foreste e steppe, quattro tra le dieci più grandi città della Russia. È il cuore della cultura russa, celebrato da Pushkin, Gogol, Tolstoj, Gorky e protagonista del folklore russo. Ha segnato mille anni di storia russa, dal radicamento del cristianesimo ortodosso, alle rivolte cosacche, alla guerra civile seguita alla Rivoluzione d'Ottobre. Lenin è figlio del Volga. Stalin ha costruito il suo mito sul Volga, dallo sterminio dei kulaki all'industrializzazione forzata fino alla Grande Guerra Patriottica: il Volga a Stalingrado era considerato nel 1942-43 il confine-chiave, il Rubicone, che i tedeschi non dovevano attraversare. Oggi questo fiume è la rotta-chiave per cercare di capire che idea ha la Russia di se stessa oggi, e che idea ha dell'Occidente e del mondo. Nella terra dei grandi fiumi, il Volga è il fiume. Lo chiamano matuska, madre della Russia. È dove Europa e Asia s’incontrano o si dividono, muro o ponte, a seconda se la bussola della Storia russa indica Oriente oppure Occidente. E ora, in questa seconda estate di guerra?

Nella prima tappa della nostra trilogia russa raccontiamo il fronte interno, cioè gli effetti del conflitto sulla popolazione. Incontriamo la famiglia zigana di un “volontario” morto in Donbass, che ha deciso di arruolarsi soltanto per far fronte ai debiti: uno delle decine di migliaia di disgraziati che hanno firmato per provare ad uscire dalla miseria. Nella poverissima izba moglie e figlia lo piangono di fronte ad un altarino dove sono assemblate le cose che più amava, le icone della Madonna, la fisarmonica, la canna da pesca. Ce lo spiega bene un professore di Nizhny Novgorod: “Chi si arruola, nella stragrande maggioranza dei casi ha già venduto la collanina dei figli o la fede nunziale. La vita è l’ultimo pegno disponibile”. Un mercenario di Volgograd, l’ex Stalingrado, accetta di parlarci in un parco, lontano da occhi indiscreti. Ma esibisce la medaglia al valore che ha appena ricevuto da Putin in persona. È con una bimba alla quale manca un braccio ed è quasi cieca. Lei stessa ci racconta che nel Donbass era in un rifugio improvvisato, quando i “nemici” hanno gettato delle bombe a mano nello scantinato pieno di civili. Ha imparato a rispondere con il sorriso che il braccio mancante è la sua “medaglia”. “Proprio come quelle di papà”, aggiunge. 

Nelle città lungo il Volga, la guerra e la morte sembrano solo fantasmi. Nei locali della movida si balla la techno e ci si sfonda di cocktail. Nel corso di quasi un mese annotiamo un sorvolo di quattro bombardieri a Tver, vicino alle sorgenti del Volga, rombi di caccia nel basso corso del fiume, pochi militari in licenza e disarmati, una colonna di venti camion con tank coperti da teloni nella regione di Volgograd, la più vicina al fronte, circa 500 chilometri. Per il resto, Russia as usual - almeno in apparenza. Anzi una Russia insolitamente dinamica. Cantieri edili e gru in piena attività nelle periferie, restauri di palazzi e chiese nei centri storici, imponenti lavori in corso sulle strade federali (però le celebri buche rimangono per qualche ragione sempre lì), netturbini diligenti e cestini dei rifiuti sempre vuoti. Ci imbattiamo in code estenuanti per il dacia-rush del weekend (numerose le auto Haval cinesi), quando i russi, cascasse il mondo, se ne vanno in derevnja, nelle loro case di campagna. Abbiamo faticato a trovare posto nei battelli che navigano lungo il Volga, presi d’assalto da migliaia di turisti, spesso dirottati sul fiume più famoso della Russia dall’impossibilità di fare le vacanze all’estero. Come Tatiana Sorokina, 53 anni, dirigente di una catena di supermercati, che incontriamo su un vaporetto a Jaroslav - panama a tesa larga in testa, occhiali da sole Gucci e sandali capresi - diretta a Sud sulla sponda sinistra alla stessa dacia sul fiume dove trascorreva le vacanze da bambina: “Ho una barca ormeggiata in Grecia a Mykonos da tre anni, chissà se e quando la rivedrò”, dice. “Sto riscoprendo il mio fiume, c’incontriamo al villaggio con amici che non vedevo da trent’anni. Una vacanza interessante”,

Pompata dalla propaganda, cresce “l’euforia da sanzioni”. Nel senso che è ormai diffusa l’idea che è un modo – obtorto collo - per sostituire con prodotti russi ciò che veniva importato, e cioè quasi tutto se si escludono petrolio, gas e armamenti. L’autarchia costringe molti settori dell’economia a scoprire per la prima volta che cosa vuol dire produrre, cercando di avvicinarsi ai livelli dei prodotti finora importati. Perché il russo medio metropolitano negli ultimi decenni ha affinato gusto e palato su parametri occidentali. Abbiamo visitato quello che viene definito “l’ultimo kolkhoz”, con tanto di bandiera sovietica e di insegna CCCP sulla palazzina principale dell’azienda agroalimentare (una delle più importanti della Russia). Il presidente “comunista” ci ha mostrato come i macchinari italiani o israeliani sono stati copiati perfettamente, ci ha illustrato un boom di vendite (soprattutto di formaggi simil-italiani e simil-francesi) senza precedenti. La responsabile di un’azienda che produce caviale ad Astrakan, su uno dei rami del Volga quando sfocia nel Mar Caspio, ci ha assicurato che la produzione di cinque tonnellate l’anno sia la stessa dell’ante-guerra. “Non posso definirmi patriottica e su Putin e questa guerra non voglio esprimermi”, ha detto la signora, come tanti imbarazzata di parlare di un tema tanto sconveniente. “Ma posso assicurare che la mia vita non è cambiata, no non è cambiata per nulla. I russi stanno reagendo alle sanzioni in modo straordinario anche con le difficoltà del rublo e l’inevitabile inflazione. I prezzi dei beni essenziali tengono. E poi si consumano prodotti più buoni e sani di prima della guerra”. La cosa più sorprendente è che sta prendendo piede la moda del “cibo russo sano e locale”, quasi un movimento Slow food russo di guerra, un inedito orgoglio culinario, dove il russkiy mir, l’idea putiniana della supremazia russa, s’è evoluta in una sorta di dottrina-borsch.

Chi dissentiva apertamente ha lasciato la Russia da molti mesi. Chi è rimasto e non accetta la realtà, semplicemente la fugge. Abbiamo incontrato una comunità clandestina di pacifisti che hanno occupato un’isola sorta dal nulla nel medio Volga quasi in coincidenza con lo scoppio della guerra. Suonano reggae russo, diventato una sorta di colonna sonora di questi pirati del Volga. Al baretto tra le dune il volto stilizzato di Pushkin appare sulla bandiera con i colori della Giamaica. Ogni venerdì nell’isola che non c’era arrivano musicisti in fuga da Samara, Kazan o Toljatti (la città industriale fondata praticamente dalla Fiat negli anni Cinquanta) e va in scena una micro Woodstock. Suonano e cantano canzoni contro la guerra, usano solo strumenti tradizionali, balalaika, domras e bayans. “Non è un allontanamento dal mondo”, ci ha detto uno di loro, ex ingegnere di sistemi di sicurezza, “ma la creazione di un proprio mondo separato. Questa è ora la nostra patria, basata sugli autentici valori russi. Là fuori tutto era spaventoso”. L’isolamento nell’isola non riesce sempre a lenire il dolore della realtà. Sergej aveva creato un rapporto speciale con due youtuber ucraini, parlavano in russo, aveva in programma di andare a trovarli in moto in Donbass proprio nel fatidico febbraio 2022. “Poi quel giorno maledetto mi hanno lasciato dei messaggi vocali, mi chiedevano se ora ero loro nemico e perché li stavamo bombardando e ammazzando”, ci ha raccontato. “Ancora non so perché siamo finiti dall’altra parte, è terribile. Posso solo piangere, ma mia madre mi diceva che i ragazzi non devono piangere”.

Le lacrime di Sergej, tra le dune dell’isola dei pirati pacifisti, sono le uniche che abbiamo visto scorrere durante l’intero viaggio.

Il fattore Dio

Il primo pope d’assalto lo incontriamo a Rybinsk, nell’Alto Volga, città portuale a circa 300 chilometri a Nord di Mosca. Era chiamata la “pescheria dello zar”, ma oggi di pesci se ne pescano pochi, in compenso Rybinsk si è riconvertita nella capitale russa del pane: sono sorti ovunque panifici che si vantano d’aver riscoperto antichi semi e antiche ricette, c’è anche una borsa del pane nella centrale Piazza Rossa, presidiata dall’immancabile statua di Lenin, sorta sullo stesso piedistallo che ospitava lo zar Alessandro II fino alla rivoluzione del 1917. La locale associazione dei panettieri ci fa sapere che le coltivazioni di frumento e segala nella regione sono aumentate del 40 per cento dall’inizio della guerra. Ogni giorno partono camion di pagnotte calde alla volta della capitale. Ioann Perevezentsov, 45 anni e 9 figli, non è un prete ortodosso qualunque. Prima di prendere i voti era un chirurgo affermato a Mosca, settimanalmente guida una spedizione di volontari che arrivano da varie parti del Paese per andare a portare aiuti al fronte nel Donbass, dove lui è spesso impegnato nel doppio lavoro di benedire le truppe e di operare i feriti. Sappiamo che è amato dai vertici militari e molto probabilmente legato all’FSB - i servizi di sicurezza eredi del KGB - come la maggior parte dei pope militanti che sostengono la guerra e la propaganda anti-occidentale del regime, a cominciare dal patriarca di Mosca Kirill, ex agente segreto dai tempi dell’URSS. Inaspettatamente accetta d’incontrarci tra una funzione e l’altra nella sacrestia della chiesta della Trasfigurazione. Si capisce che ha l’autorità di predicare la guerra santa, quella che definisce la “missione sacra della Russia per la salvezza del mondo” e che è assai ostile verso noi europei, definiti “decadenti e depravati” - chiaramente riferendosi alla questione dell’identità di genere. “Purtroppo la cultura europea ha cominciato a crollare molto tempo fa”, ci dice. “San Nicola di Serbia ne scrisse 100 anni fa, sosteneva che la cultura europea era finita e stava degradando. Oggi siamo noi a preservare i fondamenti e i valori della vera cultura europea. Non quella che vediamo e che vorrebbe corromperci, con la vergogna del peccato”.

 Sin dai tempi di Pietro il Grande lungo il corso del Volga, dove l’Impero russo ha iniziato a proiettare le sue ambizioni di potenza, i pope sono stati le sentinelle più fidate, se non i crociati dell’eccezionalismo politico e spirituale della Russia. E anche oggi sono spesso i più schierati e radicali. Dei 400 vescovi ortodossi russi non ce n’è stato uno che si sia ancora espresso contro l’invasione dell’Ucraina. Il ruolo della Chiesa ortodossa nel radicamento dell’ideologia nazionalista e neo-imperiale della Russia di Putin è evidente soprattutto nel contributo alla riabilitazione dell’Unione sovietica, tanto caro al capo del Cremlino, fervente cristiano oggi come fu devota spia sovietica fino al crollo del muro nell’89. Un’operazione spregiudicata quella di questi pope putinisti se si pensa alla repressione ed eliminazione di centinaia di migliaia di religiosi sin dalla presa del potere dei bolscevichi, e alla demolizione o riconversione ad altro uso d’innumerevoli chiese, cattedrali e monasteri durante la lunga stagione dello stalinismo. Padre Ioann, come diversi credenti incontrati durante il nostro viaggio, sostiene che “il comunismo ha tollerato la spiritualità dell’anima russa”, e che “il materialismo sovietico è stato uno strumento politico, non culturale”. “Anche i comunisti più convinti”, dice “di fronte a una situazione grave e quando nessuno poteva aiutarli non imploravano Lenin, Stalin o il Partito. Tutti gridavano aiuto a Dio e alla Santa Russia!”

Un esempio dei cortocircuiti culturali della Russia che oggi fa saltare l’ordine e la sicurezza internazionali, ritenendosi da una parte in pericolo d’essere distrutta dall’Occidente e dall’altra in diritto di diventare più grande, sta lì a poca distanza dalla chiesa di padre Ioann, nel bacino di Rybinsk, creato da Stalin sul Volga per costruire la principale centrale idroelettrica dell’Urss. Vennero sommersi 45 centri urbani, alcuni antichi di mille anni, comprese chiese e monasteri di immenso valore, come quello di Nikolajevsky, di cui rimane, in mezzo al grande lago, soltanto la torre campanaria che emerge per quasi sessanta metri dall’acqua. A lungo quel campanile è stato il simbolo clandestino della fede che resisteva all’oppressione sovietica, ma nel settembre del 2022 il patriarca Kirill l’ha fatto restaurare con fondi federali, l’ha consacrato e vi ha apposto una targa in marmo, dove c’è scritto che “questo è il simbolo della sacra patria russa che nessuno riuscirà mai ad affondare”.

 

Item 1 of 4

Attraversando la Russia in questa seconda estate di guerra abbiamo avuto la percezione che sul conflitto in Donbass, a causa delle enormi difficoltà belliche pagate sul campo con decine di migliaia di morti, sia stata innalzata una cortina fumogena innescando uno scontro più metafisico, una guerra tra due mondi opposti e ormai incompatibili. Una crociata antioccidentale alimentata dal volenteroso contributo d’incenso dei pope d’assalto. Come l’apocalittico padre Michail Rodin, un giovane batushka dalla voce angelica e dallo sguardo color acciaio. Ha 44 anni e quattro figli, appartiene alla Chiesa ortodossa dei Vecchi Credenti, nata da uno scisma nel Seicento a causa di complicate controversie rituali e liturgiche con la Chiesa ortodossa ufficiale. Una lunga storia di repressioni e di messe semiclandestine. Ma oggi la conflittualità con la Chiesa governata dal patriarca bellicista Kirill sembra essersi placata con la piena sintonia nel sostegno all’invasione dell’Ucraina e alla sacra missione della Russia nel nome di Dio. Per raggiungerlo abbiamo attraversato il fiume in uno dei punti dove è più ampio, nel basso Volga, a circa 500 chilometri a Nord di Volgograd. Il ferry ha navigato per cinquanta minuti prima d’arrivare sulla sponda Est a Balakovo, un posto abbandonato da Dio e che puzza di ammoniaca. La chiesa di padre Rodin si distingue in un paesaggio squallido, è una sorta di lodge di lusso che profuma di pino rosso e candele di cera purissima. È un prete-ideologo, ritiene che l’Urss sia ancora “la grande casa della Russia”, e che l’Ucraina debba essere “riportata in famiglia, come accade quando una sorella si perde in un bordello”. Ci ha candidamente assicurato che i russi non esiteranno a far saltare il mondo intero con l’arma atomica se non otterranno quel che vogliono: “Siamo pronti a sacrificarci. Perché se non si vince, bruciamo tutto”, le sue parole. “Se non otteniamo il futuro luminoso che desideriamo che senso ha vivere? Come ha detto il nostro Presidente, abbiamo forse bisogno di un mondo in cui non c'è la Russia come la desideriamo noi? Ha espresso il sentimento di tutti. Se non abbiamo la Russia che vogliamo, siamo pronti a essere martiri, a sacrificare noi stessi e il mondo intero se ingiusto e malvagio. Non c'è bisogno di un mondo così”.

Una delle poche voci in dissenso la incontriamo a Kostroma, a sud di Jaroslav, ritenuta la culla dell’ortodossia russa. Il Batushka della Chiesa della Trasfigurazione è Mikhail Terentiev, 32 anni. Mostra i libri antichi conservati in segreto dai fedeli durante il regime sovietico. Si definisce pacifista. Quando gli chiediamo che cosa pensa dell’offensiva antioccidentale della Russia è inizialmente a disagio, chiede se di queste cose si possa parlare davanti a una telecamera. Poi però confida un pensiero che sembra covare da molto tempo, assistendo al montare della propaganda di tanti suoi colleghi, che chiama “teologi dell’invasione” (richiamo sottile alla teologia latinoamericana della liberazione): “Quando si dice che l'Europa e l'America sono miscredenti corrotti e così via, penso sempre al fatto che ci sono due Paesi al mondo in cui la domenica quasi il cinquanta percento della popolazione frequenta chiese cristiane di diverse denominazioni. Si tratta degli Stati Uniti e della Polonia. In confronto, in Russia anche a Pasqua meno del cinque percento della popolazione si reca in chiesa. La cosa grave è che si usa la fede come strumento politico ed ideologico”.

La missione

L’ambizioso obbiettivo del nostro lungo viaggio-inchiesta è stato quello di provare a capire che cosa vuol dire essere russi oggi, mentre la Russia ha fatto saltare l’ordine internazionale, ha innescato uno scontro frontale con Europa e America, appare sempre più distante e minacciosa. La scelta di seguire la rotta del Volga, dalle sue sorgenti nella regione baltica fino a quella caucasica al delta di Astrakan sul Mar Caspio, è stata determinata dal ruolo che questo fiume ha sempre ricoperto nella storia russa, tanto da essere chiamato al femminile, matushka, la madre della Russia. È dove nei secoli si è più contribuito alla formazione del carattere, dell’identità e della cultura dello Stato più esteso del mondo. Dalla fondazione della Rus’ all’invasione di Gengis Khan (l’unica grande sconfitta russa nella Storia), dalla nascita dell’impero zarista all’affermazione di quello sovietico con la sanguinosa vittoria di Stalingrado, dall’industrializzazione forzata di Stalin fino al radicamento dell’autocrazia post-sovietica di Putin, questo fiume rappresenta “l’autobiografia della Russia”, come ci ha detto il potente direttore dell’Hermitage, Mikhail Pietrovsky. La sua fonte tra le foreste del Valday nell’oblast di Tver, tra San Pietroburgo e Mosca (più o meno dove è caduto l’aereo di Evgenij Prigozhin), è stata recentemente consacrata dal patriarca Kirill come fonte battesimale; ma anche Lenin, dopo la vittoria bolscevica, volle che alla base della grande statua dedicata alla Madre Volga si scrivesse che “il comunismo è il potere dei Soviet più l’elettrificazione del Paese”.

“Il Volga è la Russia”, ha detto Pietrovsky, “il simbolo di ciò che siamo: una nazione fatta di molte nazioni. Secondo me più che separare l’Est e l’Ovest, li unisce, perché non è troppo ampio. E collega il Nord e il Sud da tempi antichissimi e la battaglia di Stalingrado avvenne perché i nazisti volevano interrompere quel corridoio e se ci fossero riusciti avrebbero occupato l’intera Russia. Ma anche oggi”, ci ha detto il potente direttore dell’Hermitage nel suo modesto ufficio nello scantinato del museo, “è il corridoio attraverso il quale aggiriamo le sanzioni occidentali e dove avvengono gli scambi con l’Iran”.

Il nostro viaggio è in realtà iniziato a San Pietroburgo, e fa impressione scoprire come anche nella città più europea del Paese, dopo il conflitto in Ucraina, si sia alzato un muro di ostilità, principalmente culturale, nei confronti dell’Ovest. Uno dei temi più divisivi – poi constatato nel corso del viaggio anche tra le voci critiche verso il regime – è quello dei diritti individuali e dell’identità di genere visti come una minaccia per la cultura tradizionale russa. Quando il patriarca Kirill affermò che “la Russia non può permettere gaypride a Kiev”, suscitò ilarità nel mondo, ma in realtà indicava una linea rossa reazionaria che trova grande consenso nel Paese. Yuri Zapesotskiy, esperto di brand identity e di storia della cultura russa all’università di San Pietroburgo, l’ha presa da lontano e con un tono predicatorio: “Durante l'epoca sovietica, i russi avevano idee molto rigide su ciò che è buono e ciò che è cattivo”, ci ha detto. “Negli anni Novanta, quando l'Unione Sovietica è crollata, abbiamo conosciuto nuove idee su ciò che è buono e ciò che è cattivo, e ognuno poteva dire cosa è buono per sé. E quando la pubblicità occidentale è arrivata in Russia, abbiamo avuto un enorme afflusso di nuove idee che hanno iniziato a cambiare la mente dei russi e la loro comprensione di ciò che è buono e ciò che è cattivo. Innanzitutto, le nuove idee ci hanno detto che non è molto importante fare qualcosa che comporti sacrifici, ma che tutto può essere facile, divertente e veloce. Che non è importante la profondità, ma la superficie. Quelle idee che venivano dall'Occidente erano come l'acqua che entrava nel bicchiere. Molte, molte idee. E arrivavano, arrivavano... Il bicchiere è diventato troppo pieno e l'acqua ha cominciato a uscire dal bicchiere. Ed è quello che sta accadendo ora”. Yuri ha 35 anni, è figlio dell’ex rettore dell’università di scienze umane e sociali di San Pietroburgo oltre che membro dell’Accademia delle Scienze di Mosca. È una delle voci emergenti nel pensiero anti-occidentale e del neo-messianesimo russo: “Le cosiddette idee queer sono tra quelle che sono arrivate in Russia dall'estero. Dall’Ovest ci dicono che ognuno può decidere come vivere la propria vita. Ma queste idee sono completamente diverse da quelle che i russi hanno preso dai loro genitori e i loro genitori dai loro genitori. Questa è quella che noi chiamiamo cultura tradizionale. Non solo si sostiene che ognuno può vivere come vuole, ma ha il diritto di mostrarlo in pubblico. In sostanza di fare tutto ciò che vuole. Ecco questa idea per la Russia è forse troppo dura”. Yuri parla esplicitamente di “scontro di civiltà”, dice che “negli ultimi dieci anni questo scontro di civiltà, anche a San Pietroburgo sta avvenendo in modo più duro, più forte e più rumoroso”.

È forse troppo semplice e comodo pensare che le idee antioccidentali che circolano oggi nelle vene del Paese siano soltanto il risultato dell’indottrinamento di regime. Significa sopravvalutare Putin e ignorare ciò che da sempre orienta la storia dei russi: l’attrazione, se non l’invidia, per l’Occidente – sia esso quello di Voltaire o quello di Hollywood – oppure la difesa orgogliosa, superba, prepotente della propria diversità. Ora è prevalente l’idea dell’incompatibilità russa con un Occidente percepito come corrotto e come una minaccia per la “diversità russa”, diventata un’ideologia revanscista e imperialista. Ritorna la mistica della missione russa nella Storia. Ai limiti del fanatismo. Una giovane maestra elementare di Samara, Olga Smirnova, ci ha parlato di una “guerra d’indipendenza guidata dalla Russia per salvare il mondo dal dominio americano”. “La nostra nazione”, ci ha detto, “ha una missione speciale, quella di salvare il mondo. Non è uno slogan, lo affermo sapendo ciò che dico: una missione speciale per salvare il mondo dal diavolo”.

La Russia guarda indietro, alimenta la mitologia della grandezza aggrappandosi al passato, anche a quello più tragico. Nostalgia e voglia di rivalsa: una miscela tossica. Abbiamo verificato come sia in atto un’acritica riabilitazione non solo dell’Unione sovietica, ma addirittura di Stalin, visto come riferimento di riscatto nazionale: è più di moda di Lenin, elogiato più apertamente di Putin. Un’icona anche tra i giovani della “generazione Z”, che lo esibiscono sulle t-shirt sulle spiagge del Volga.

A Ulyanovsk, la città dove Lenin visse fino all’età di 17 abbiamo intervistato Dmitry Rusin, professore di letteratura russa, nella camera da letto del futuro capo della rivoluzione bolscevica. “La nostalgia cattura non solo le persone che erano giovani ai tempi dell'Unione Sovietica, ma anche i giovani che non hanno mai visto l'Unione Sovietica e l’immaginano solamente in base ai racconti dei loro genitori, dei loro nonni. Si è formata un'immagine ideale, possiamo dire, e anche tra i giovani c'è questa nostalgia”. Ma perché sta ritornando il mito di Stalin? – abbiamo chiesto. ”Stalin è direttamente collegato all'imperialismo sovietico”, secondo Dmitry. “Quest’idea imperiale, che esisteva prima della rivoluzione nell'Impero russo, e che è poi continuata con l'Impero sovietico, si è radicata nella maggioranza dei russi. È come una sorta di doping ideologico. Dove l’obbiettivo principale dell’essere russi diventa esaltare la potenza della Russia, la sua grandezza e il suo imperialismo. Questo sono i russi oggi.”

Se le statue di Lenin sono ancora ovunque e fanno ormai parte del paesaggio russo, come le betulle e le guglie a cipolla, è Stalin la star dell’estate 2023. Il suo maggiore sponsor è Putin: sa di toccare la corda magica che risveglia sogni di gloria covati in segreto da un paio di generazioni. “Putin non si confronta con Lenin, una figura troppo intellettuale e complessa per lui in questi tempi di facili approssimazioni. E troppo europea”, ci ha detto ancora Dmitry Rusin. “Putin piuttosto ama essere affiancato alla figura di Stalin, così come Stalin associava la sua spietata idea del potere russo a Ivan il Terribile. Un’idea non europea, ma piuttosto asiatica, che non tiene in nessuna considerazione la vita dell’individuo. Questo ritorno del culto di Stalin, soprattutto tra i giovani, m’inorridisce. Sento la catastrofe arrivare”, ha confessato il professore.

A Samara abbiamo visto scolaresche in visita al celebre “bunker di Stalin” costruito (e mai utilizzato) quando i nazisti erano alle porte di Mosca, una struttura mantenuta segreta fino a pochi anni fa. A Volgograd, ex Stalingrado, abbiamo faticato a trovare biglietti per i musei e i siti che ricordano la Battaglia più sanguinosa della Storia. È la città totem, simbolo tornato in gran voga, a celebrare la capacità di resistenza e sacrificio dei russi, che sembrano rassegnati a un futuro d’isolamento e di conflitti. Gli otto volumi sulla storia di Stalingrado di Andrej Voronov, stanno andando a ruba. Quando l’abbiamo incontrato, proprio nella città che cambiò le sorti della Seconda guerra mondiale, ha premesso che ora non vede nei russi la stessa compattezza della Grande Guerra Patriottica. Ma assicura che arriverà presto il tempo di una nuova Stalingrado: “Da storico vi dico che la Russia ha dimostrato più volte di essere un esempio. Rinasce dalle fiamme come una fenice. E gli eroi stanno aspettando la loro ora, sono già lì. Il tempo gioca a favore della Russia, questo tempo arriverà. Non è lontano”.