Jovanotti, il ragazzo che sognava il luna park
Le interviste del direttore di Sky TG24
Giuseppe De Bellis a dieci grandi italiani
che hanno saputo raggiungere il successo
a livello internazionale
Lorenzo Jovanotti scende le scale della casa degli Atellani di Milano con la stessa andatura con cui entrava e usciva dal palco del Jova Beach Party. Sorride, saluta, guarda fuori da un finestrone che si affaccia sul giardino che fu la vigna di Leonardo da Vinci. È un posto che ha scelto lui: Milano, il centro di Milano, luogo in cui la sua vita è diventata possibile per come l’aveva sognata, immaginata, desiderata.
A 56 anni, con 15 album in studio, uno di remix, cinque raccolte, sei album dal vivo, cinque album video, quattro EP, più di cento singoli, oltre 10 milioni di dischi venduti, 18 tournée con oltre 440 converti live, 550mila spettatori nell’ultimo Jova Beach Party tour, è come tornare dove tutto è cominciato, in quelle strade che cantava in Gente della notte, dopo le giornate a Radio Deejay o a Deejay Television, dopo le sere in discoteca o negli studi di registrazione. Milano è una casa, non la casa. “Io sono arrivato qua che avevo diciotto anni… dieci anni fisso, poi ho cominciato a muovermi, sono stato un po’ in Romagna, avevamo uno studio di registrazione, per cui un po’ di dischi li ho fatti tra Forlì e Riccione… poi quando è nata mia figlia siamo tornati a Cortona, perché era il posto più “in mezzo" tra Roma e Milano, poi iniziava internet per cui mi dava la possibilità di lavorare anche da casa".
Guardando questo luogo che ci ha accolti mi viene in mente una domanda sul tuo rapporto con la bellezza, perché tu la citi spessissimo, parli spesso di bellezza, ma il tuo feeling con la bellezza qual è?
La mia sensazione è di esserci un po’ nato dentro, mio malgrado. Nel senso che io sono nato tra Cortona e Roma, la mia formazione sentimentale ed estetica è avvenuta in due luoghi di una bellezza diversa ma strepitosa. Forse il luogo che più mi ha segnato da bambino è proprio il Vaticano…quelle stanze lì, quella meraviglia, i Musei Vaticani… Tu immagina un bambino che visita i Musei Vaticani da solo, quando sono chiusi, la Cappella Sistina fuori dall’orario d’apertura, che impatto può avere nella testa di un bimbo. Che poi tutto questo non si è tradotto in realtà in un’estetica di quello che faccio, perché poi in realtà io vivo nel caos, mi nutro del caos e mi piace il caos e mi piace anche ciò che non è canonicamente bello. Mi interessa anche ciò che disturba e mi interessa anche il brutto, diciamo così, mi nutro di tutto.
Ecco, ma il processo creativo che ti porta ad una creazione parte da una visione che ha a che fare con un oggetto, che ha a che fare con un’opera d’arte, oppure è frutto del caso?
È frutto del confrontarmi con il caso e quindi del mettermi in relazione con le cose che accadono cercando di trovare il punto in cui mi sento risuonare, sento che accade qualcosa dentro di me per cui mi sembra che la cosa che sta accadendo sia giusta. È molto difficile dare una definizione di questo, perché io faccio canzoni pop, non c’è niente di più misterioso e di più aleatorio e di indefinibile di questa parola “pop”. Quindi è molto difficile perché il pop non è necessariamente bello, non risponde a nessun tipo di canone, anzi funziona quando ha dentro un elemento di innovazione contemporaneamente ad un elemento di riconoscibilità. Quando queste due cose stanno assieme si scatena l’effetto del pop. Un oggetto pop in qualche modo è accogliente ma allo stesso tempo parla del futuro… Come si fa questo? Io non lo so! Nel senso che lo cerco continuamente, è un’ossessione.
GUARDA L'INTERVISTA INTEGRALE
"Vivo nel caos, mi nutro del caos e mi piace il caos"
Torniamo a questo luogo. Milano, qui accanto c’è la vigna di Leonardo. Un posto che hai scelto tu, perché semplicemente ti piace…
Beh è una meraviglia, un posto bellissimo, uno dei posti più belli del mondo, ed è anche piuttosto sconosciuto, perché io stesso l’ho scoperto per caso, perché i primi anni che ero qui a Milano una mattina dissi: “Io sono a Milano, non posso non andare a vedere il Cenacolo”. E quindi venni a vedere il Cenacolo e uscendo vidi questa facciata così bella di questo palazzo e dissi: “cos’è?”. E poi ho scoperto anche la storia meravigliosa, si pensa che qui ci abitasse Leonardo Da Vinci e che avesse anche una piccola vigna dalla quale faceva il suo vino.
Tu hai tre luoghi che sono Roma, dove sei nato, Milano, dove hai cominciato il tuo percorso professionale e poi il posto che ami di più credo che sia la tua Cortona…
è tanto il posto che amo di più quanto il posto dove vivo, dove sono cresciuto da bambino nelle vacanze dai nonni, però non posso dire che è un posto che amo più di Roma o Milano. In realtà non è un posto più speciale degli altri, sono tutti e tre luoghi importanti.
Milano che cosa ha rappresentato? E che cosa rappresenta oggi?
Milano per me è stata un po’ l’America, nel senso che io quando sono arrivato a Milano avevo appena compiuto 19 anni e avevo fatto un provino per DJ Television che era il programma di Italia 1, facevo già il DJ a Roma nei locali e nelle radio private, e arrivare qui per me voleva dire andare via di casa, l’indipendenza, il lavoro, una città nuova e diversa, molto diversa da Roma: più europea, più affacciata verso un mondo che mi attraeva. Oltre all’America, Milano era anche il sogno, il sogno che si stava realizzando: vedevo che si mettevano in fila le cose oltre ogni mia più rosea aspettativa. Facevo il deejay nei locali di notte e alla radio e per me quella cosa lì era già più che una gioia infinita. Ero contentissimo, non facevo programmi per il futuro. Per me il programma era continuare a fare quella cosa lì.
E poi invece mi è scoppiata in mano una popolarità televisiva, musicale, perché poi avevo già fatto un po’ di musica da club, un po’ di musica da discoteca. Avevo fatto un disco autoprodotto con un mio amico e poi invece arrivò Claudio Cecchetto, che era comunque il proprietario di Radio DeeJay e anche DeeJay TV, insomma un grande produttore musicale in quegli anni, era un po’ il Re Mida della musica Pop e della TV dei ragazzi. Lui mi offrì di diventare il volto del suo progetto e io mi affidai completamente a lui, mi misi nelle sue mani mettendoci tutta la mia energia. Per cui io sono venuto via da Roma una notte e non sono più tornato per anni.
"Milano per me è stata un po’ l’America, una città affacciata verso un mondo che mi attraeva"
Il tuo rapporto con Roma? Tu sei nato sulla soglia del Vaticano
Sì, proprio fuori dalle mura. Io vedevo dalla finestra della camera, che dividevo con i miei fratelli, proprio la cupola di San Pietro davanti e quella è l’immagine più forte che ho. Io amo Roma, Roma è Roma, la città più bella del mondo, la città più incredibile, più stratificata, più pazza. Io ho un problema rispetto ai miei colleghi: spesso i cantanti hanno un luogo che li identifica fortemente. Io invidio molto gli artisti, i miei colleghi che hanno Napoli e cantano Napoli, o Carbone che canta Bologna come Dalla, oppure non so Venditti che fa la canzone su Roma. Io non ce l’ho un posto dal quale vengo. Sono un po’ sradicato, no? Infatti quando ero a Roma era quello toscano, quando andavo a Cortona ero il romano. Milano in questo senso è una città che accoglie, come New York. Diventi subito milanese perché non è una città di milanesi. Incontri quasi solamente gente che arriva da altre parti, per cui questa cosa qua rende Milano forse la città più moderna d’Italia, proprio per questa sua mancanza di un’identità forte. Che poi se la vai a cercare c’è, c’è Gaber, Celentano, c’è tutto un mondo. Però Celentano per esempio è pugliese, [Milano] è comunque una città di immigrati.
La tua infanzia a Roma, com’è stata? Tu ne hai parlato in diverse occasioni. La ricordi come un momento felice?
La mia infanzia è stata molto felice e piena d’amore. Una famiglia numerosa, quattro figli, mio babbo faceva l’impiegato in Vaticano. Semplice, senza settimane bianche a Capodanno, senza nessun lusso, diciamo così. I miei compagni di scuola andavano in settimana bianca e io non ci andavo, oppure si rinunciava a qualche gita. Però non mi è mai mancato nulla e in più era una famiglia dove c’era molto caos in casa, le porte sempre aperte. Mio babbo pur abitando in centro a Roma sosteneva questa sua tesi che lasciare la porta aperta era un modo perché i ladri stessero lontani, perché almeno vedono che non abbiamo paura. E quindi sono cresciuto al primo piano di un palazzo del Vaticano in via Porta Cavalleggeri con la porta aperta sempre e questo però voleva dire che entrava gente, entravano i miei amici, entravano gli amici dei miei fratelli. Era una casa piuttosto rumorosa.
C’è un filo nella mia infanzia che è quello di una tristezza della mia mamma, che per me è sempre stato forse il motivo più forte per il quale ho sentito il richiamo dell’attitudine a portare allegria. Perché è come se venissi investito da questo ruolo in casa, dal ruolo del terzo figlio che avesse un po’ la capacità di farla sorridere. E poi crescendo ti rendi conto che ci sono tutte delle cose che motivano questo, mia mamma madre di quattro figli, casalinga, spesso sola, venuta da un paese piccolo, era quasi laureata in biologia poi aveva dovuto interrompere perché suo padre aveva avuto dei problemi economici. Tutte delle cose messe in fila che a un certo punto l’hanno portata verso una vita che forse non era una vita che lei desiderava nel profondo. Però era un’altra generazione e quindi ci si adattava. È stata una mamma fantastica: è stata presente, generosa, amorevole, intelligente, mi ha sempre sostenuto in tutte le cose. Però, quando io la guardavo quando era da sola e non era osservata, coglievo in lei un po’ di tristezza. Una vena di tristezza che probabilmente mi ha guidato verso questo ruolo di figlio clown in casa. Ero cosciente io in questo, volevo che lei stesse bene e quindi sentivo che il mio successo, il fatto che comunque fossi creativo, fossi artistico, disegnassi, le facessi dei ritratti, mi piaceva, o perlomeno mi faceva sentire utile in questa situazione. Detto questo, però, non voglio drammatizzare una cosa molto normale. Una mamma con quattro figli… però viste da dentro le sembrano sempre enormi, sembrano molto più grandi di quello che sono. Alla fine, come ho detto, la mia è una famiglia normale, come tante famiglie, non esistono famiglie solo felici, no? Sono tutte disfunzionali, bisogna vedere fino a dove arriva il grado di disfunzione.
"La mia infanzia è stata molto felice e piena d’amore"
Vedevi la cupola di San Pietro, ma nella tua vita la fede ha avuto un ruolo? Sei credente? Sei stato credente?
Sì, ha avuto un ruolo la fede degli altri soprattutto. Sono stato molto esposto, alla fede degli altri, a vari livelli. Dalla fede semplice della mia nonna e della mia mamma, che andava sempre in chiesa, alla fede istituzionale delle grandi cariche della Chiesa, il Papa, i cardinali, col costume, l’iconografia, la messa in scena maestosa. Questo per tutta una parte della mia vita mi ha escluso dal mio coinvolgimento personale, non mi sono fatto proprio domande…mi interessava di più la messa in scena di tutto questo che non quello che poteva scaturire dentro di me da un punto di vista profondo. Poi la vita va avanti, cerchi di approfondire e dici “come sta in piedi questa cosa da duemila anni?”. Quindi cominci a incontrare persone che ti possono dare delle letture da fare, poi fai grandi incontri con le grandi figure del cristianesimo e di conseguenza poi delle altre religioni. Però con me si fa fatica a ragionare di queste cose, nel senso che io stesso faccio fatica. Posso essere buddista alle 7 di mattina e ateo alle 11.
È vero che hai regalato un 'mate' a Papa Francesco?
In realtà ce l’ho ancora.
Allora c’è un disallinamento rispetto alla notizia che avevo ricevuto...
Sì non so chi te l’ha data però è vero, mi stai dicendo una cosa che non sa nessuno. Ho fatto realizzare, da un artista di Buenos Aires che realizza dei mate artigianali molto belli, un mate per Papa Francesco e ce l’ho lì, incartato. Ad un certo punto ho scritto una lettera a chi si occupa delle udienze private del Papa, raccontandogli la mia storia, dicendo “Io sono figlio di un dipendente del Vaticano, sono cresciuto in Vaticano, sono un cattolico romano, per quanto non ortodosso, però mi riconosco in questa famiglia”. Siccome era da poco guarita mia figlia da una malattia, mi piacerebbe incontrare il Papa… non so se queste cose bastano per poter incontrarlo, ma sono anche un cantante famoso. E mi hanno risposto. Mi ha risposto questo monsignore dicendo “appena ci sarà occasione… il Papa adesso non sta benissimo, per cui ha rarefatto molto questo tipo di incontri che però lui fa. Spero di darglielo perché anche lui mi ha risposto, dicendo: “io conoscevo tuo padre”. Mio padre in Vaticano lo conoscevano tutti, perché era un tipo simpatico. Poi lui per arrotondare lo stipendio da impiegato faceva un po’ di altri lavoretti, per cui dava una mano al cardinale, gli andava a fare la spesa, faceva un po’ di cose e quindi lo conoscevano tutti. Poi il Vaticano è un mondo piccolo, è un paesino, un paesello.
"Per me il ballo è un elemento vitale fondamentale, è forse la scintilla creativa più importante"
"La folla mi piace. Però non c’è un luogo dove sei più solo che sul palcoscenico"
Ti porto alla strettissima attualità, al tuo ultimo disco, “Il disco del sole” in un momento in cui abbiamo bisogno di sole. Il sole è una cosa che ricorre tantissimo nei tuoi titoli, nelle parole.
Fin troppo ricorre, a volte mi devo frenare perché fosse per me farei solo canzoni che parlano del sole. In realtà è come una presenza sulla quale mi devo trattenere: mi rendo conto che esagero a volte, però specialmente ultimamente ne ho avuto proprio bisogno.
Che cos’è questo momento per il tuo percorso professionale e artistico…
Mi rendo conto di aver fatto un sacco di roba, sono più di 40 anni che faccio questo lavoro professionalmente più o meno, e quindi se ci penso sono tante canzoni, sono tanti incontri, tanti concerti, tante cose, poi mi rendo conto che adesso tornano di moda delle cose che io ho vissuto. Sai, quando rivedi delle cose che per mia figlia sono nuove e per te sono la terza volta che ti compaiono davanti comincia a pensare che è passato del tempo. Però allo stesso tempo poi non mi interessa tutto questo passato. Ho affetto, ho gratitudine, però in realtà penso che guardo avanti, perché comunque mi sento molto creativo, anzi mi sento all’inizio della creatività, che è forse la fase magica. Non mi sento neanche tanto creativo, sento desiderio di essere creativo, e il desiderio è la spinta iniziale di tutto. QUIndi allo stesso tempo sono un cantante di una certa età, visto da fuori, ma visto da dentro non è così, c’ho una gran voglia di stupirmi, di meraviglia, di fare cose nuove, è così incredibile il mondo, poi l’epoca che stiamo attraversando, è così complessa. Tutto sta cambiando profondamente.
"Sento il desiderio di essere creativo e il desiderio è la spinta iniziale di tutto"
Per preparare questa nostra chiacchierata, sono andato a rileggere “Gratitude”. Tu hai appena citato la gratitudine, quel libro mette a fuoco, racconta i tuoi primi 25 anni con questo approccio anti nostalgico. Sono passati 10 anni dall’uscita di quel libro. Nei 10 anni che sono passati da quel momento a oggi l’atteggiamento l’atteggiamento tuo è rimasto lo stesso di quel momento di quando hai dovuto mettere nero su bianco quello che avevi fatto e avevi pensato guardando al futuro, o è cambiato qualcosa?
Beh sono cambiate tante cose. Sono morti i miei genitori, mia figlia è grande, si è laureata all’Accademia d’arte: dal punto di vista personale sono cambiate tante cose. Ho fatto il massimo di quello che un cantante può fare in questo paese. Ho riempito gli stadi, ho riempito le spiagge. Quindi, insomma, uno potrebbe dire che in Italia ne abbiamo fatte di tutti i colori. Però quella sensazione di gratitudine non è cambiata, infatti il libro l’ho chiamato gratitude proprio perché è un sentimento che io sento sempre molto forte, molto molto forte. Forse di tutti è quello che più mi invade, la sensazione di gratitudine vaga, poi indirizzata anche personalmente, posso farti tanti nomi e cognomi. Però è una sensazione che va oltre i nomi e i cognomi, una sensazione proprio da personaggio di un romanzo di formazione, da Forrest Gump a volte. Poi comunque tanto lavoro ma contemporaneamente tanta voglia di lavoro, di capire, di stare dentro il mondo, di interpretare il mio tempo, di sentirmi parte del tempo che cambia.
Sai il vantaggio di aver visto le cose cambiare tante volte ti dà la consapevolezza che le cose cambiano, che siamo qui per trovare delle soluzioni a dei problemi che ci si presentano. Come se la vita, il tempo, il mondo, l’arte, la politica, la storia ci presentino delle questioni e l’essere umano è qui per cercare delle soluzioni. A volte si trovano, a volte fai peggio, cerchi la soluzione e peggiori la cosa, però in tutto questo il senso di gratitudine è molto forte, anche perché grazie al cielo le cose fino ad oggi le cose si sono poi risolte quando hanno presentato dei problemi. Quindi se continua così io continuo a mantenermi aperto.
Poco dopo quel libro qualcuno si è divertito a fare il censimento delle parole delle tue canzoni. Ad un certo punto sono venute fuori in un articolo del Corriere della Sera quattro o cinque parole che ricorrevano dall’inizio della tua carriera fino al 2015: le prime due erano “Now” e , “Salto”. Allora io sono andato a vedere quello che è successo negli ultimi otto anni. La cosa è meno scientifica, è più artigianale, ma mi sono reso conto ci sono quattro parole che ricorrono più spesso. Una è “vita”, l’altra è “ballo” o “ballare”, l’altra è “bambino”, e l’ultima è “sole”. Queste parole hanno qualcosa in comune o sono sganciate?
Beh, sembra quasi un disegno di un bimbo. Anche se la parola “vita” nei Bambini non c’è, se tu dici “vita” un bambino non sa di cosa stai parlando, quindi la parola “vita” prende forma col tempo. Quella è una parola che non c’era e che è entrata, nell’inizio di uno dei libri più belli di sempre, “Cent’anni di solitudine”, Garcia Marquez racconta di Macondo e l’alba di Macondo è caratterizzata dal fatto che non era mai morto nessuno, quindi la storia di Macondo inizia quando muore qualcuno per la prima volta, perché solamente quando muore qualcuno per la prima volta sai cos’è la vita. Quindi quella è entrata dopo. La parola “ballo” è forse quella iniziale. Il ballo è misterioso perché è irrazionale, perché è una forma di comunicazione primordiale.
Per me il ballo sebbene io sia un ballerino scardinato, primitivo, per me il ballo è un elemento vitale fondamentale, è forse la scintilla creativa più importante. Mi piace fare canzoni da ballo, la musica da ballo mi fa impazzire, è un linguaggio universale in assoluto.
"La gratitudine è un sentimento che sento sempre molto forte. Forse è quello che più mi invade"
Una volta l’hai definito “musica da calci in culo”
Beh sì è vero, perché sai è la musica dei luna park, è quella cosa che l’artista ad un certo punto inizia a sentirsi a disagio a fare musica da luna park, e invece a me piace, a me devo dire che piace se un mio pezzo viene suonato in un luna park o nel calci in culo, per me non è una cosa della quale non andar fiero, anzi è un traguardo. Un giorno uno mi domandò: “vorresti che ti dedicassero una via?”. Io risposi “No, vorrei che mi dedicassero una sala giochi”. Proprio un luogo dove c’è vita, dove ci si diverte. Ciò non toglie che io ami anche la parte della canzone d’autore. Mi piace mischiare le cose, una canzone che si balla ma dove contemporaneamente riesco ad infilarci dentro un’immagine che abbia qualcosa di vero, di profondo. Una canzone per me funziona quando ha vari strati, per cui tu la guardi e poi la guardi dietro e vedi che prosegue. Però la parte più importante è la facciata, quella che ascolti la prima volta. Però poi è un oggetto complesso la canzone, per cui è importante questo. Sì, il ballo è un elemento fondamentale.
Continuamo con le parole…
Poi il sole, il sole è tutto, esistiamo perché esiste il sole, la luce, la fotosintesi clorofilliana. Noi in realtà esseri umani non facciamo la fotosintesi, però ci nutriamo di piante che fanno la fotosintesi quindi in qualche modo ci nutriamo di luce. La luce è la ragione stessa per la quale esiste il mistero della vita nel pianeta.
Ti riporto al ballo, perché vorrei parlare del Jova Beach Party. È passato qualche mese, riguardando, ripensandoci che cos’è stato questo secondo Jova beach party?
E’ stato enorme, da tantissimi punti di vista. È stato una botta di vita, anche perché c’è stato di mezzo il covid, per cui quando sono uscito per la prima volta a Lignano di nuovo ho visto come se le persone fossero triplicate, sebbene il numero fosse più o meno quello. Erano 50 mila ma sembravano 500 mila, perché probabilmente c’è stata proprio una riscoperta del corpo, che come strumento di condivisione, di piacere, poi immerso in una spiaggia in costume da bagno, sotto al sole, per una giornata intera, mi rendevo conto che quella cosa lì si poteva solamente vivere. Non si può descrivere, si può amare, si può criticare, se ne può parlare, ma essere lì, in quel momento insieme, era unica.
Era più di un concerto, era più di un format tradizionale di un concerto, dove arrivi parcheggi la macchina al tuo posto, sai che alle nove inizia, alle undici finisce. Quello che abbiamo inventato con Jova beach party, che abbiamo costruito insieme al pubblico devo dire, è qualcosa di molto più antico. Mentre lo realizzavamo, mi ero ricollegato a certe tradizioni addirittura mitologiche, come i misteri eleusini. Poi tu sei pugliese, sai cosa significa la musica trance, i ritmi trascinanti che comunque fanno venire fuori il male e ti guariscono. Tutte cose qua mi sembrava che avessero a che fare con quello che stavamo facendo. In effetti è stato così, poi come sai essendo giornalista abbiamo sollevato alcuni polveroni.
"Il Jova Beach Party? Non si può descrivere, si può amare, si può criticare, se ne può parlare, ma essere lì in quel momento insieme, era unico"
"Mi piace fare canzoni da ballo, la musica da ballo è un linguaggio universale"
"Vorresti che ti dedicassero una via?" "No, vorrei che mi dedicassero una sala giochi"
Qualche mese dopo, sempre riguardando indietro. Le polemiche hanno un effetto diverso o si sono esaurite in quel momento. Ne è rimasto qualcosa dentro di te?
Le polemiche si sono esaurite in quel momento perché io sapevo quello che stavamo facendo, quindi ero a posto: avevamo i permessi legali, e in Italia non è semplice. Abbiamo lavorato un anno per avere tutti i permessi. Ma al di là di quello, che è il minimo, poi c’era tutto il resto, che per me era importante, quindi la valorizzazione di quei territori lì, il portare un gran numero di gente in luoghi di provincia, la bonifica di un sacco di spiagge dove siamo stati, che prima che arrivassimo noi in certi casi erano veramente un po’ deturpate, abbandonate. Per cui insomma io mi sentivo tranquillo. Certo, poi sebbene tu ti senti tranquillo e sai che hai una barca che può superare le tempeste poi la tempesta è la tempesta, per cui quando poi ci passi dentro devi avere a che fare comunque a che fare con punti di vista che ti mettono in discussione e dici “forse abbiamo sbagliato qualcosa”. Però no, perché poi in realtà mi rendevo conto che erano pretestuosi, non voglio essere presuntuoso, ma nel 100% dei casi non c’è stata nessuna delle iniziative prese contro Jova Beach Party che è andata in porto. Tutte si sono fermate subito, e questo non è un paese dove non vanno in porto le cose, tutte le procure hanno fatto le indagini. Io ero molto tranquillo sebbene mi dispiaceva, perché non volevo fare una cosa divisiva, non pensavo di fare una cosa divisiva. Pensavo di fare una cosa bella e anche dal punto di vista del tema ambientale mi sembrava di fare una cosa utile, che solleva la questione. Io penso che il bilancio sia molto positivo. Le polemiche ci sono state, sono un po’ pretestuose, spesso sono pretestuose le polemiche in Italia. Non sempre, a volte sono pretestuose, nel nostro caso lo erano.
Hai citato la barca in un contesto totalmente diverso, ma è una passione per te, il mare e la barca a vela. Vero?
Sì, è una passione un po’ distante come dire, perché in realtà la mia formazione emotiva e sentimentale è stata a Cortona, e Cortona è esattamente a metà strada tra due mari, quindi io non sono un uomo di mare. Non sono mai andato al mare da bambino, andavo a Cortona dai nonni, però l’idea del mare è forse una delle più potenti che ho sempre avvertito. Il mare è la metafora, la metafora delle metafore, la navigazione, la scoperta. Siamo in un posto pieno di carte geografiche, l’epopea dei grandi navigatori e delle grandi scoperte, mi accende l’immaginario e mi entusiasma. Poi un giorno sono diventato amico di Giovanni Soldini, che per me era un eroe, uno fantastico, leggevo tutte le sue interviste, leggevo i suoi libri, guardavo i suoi video.
Siamo diventati amici, abbiamo la stessa età, e ci siamo trovati una sera a cena a parlare fino all’alba. E lui mi ha detto “Ma scusa perché non vieni con me una volta, visto che sai tutte queste cose, sai tutti i nomi tecnici, vieni con me!”. Quindi mi ha invitato a una regata nel suo catamarano e quando sono tornato a casa ho detto a mia moglie Francesca “ma io sono nato per fare questa cosa, questa è la mia vita, io dovevo fare questo!”. Poi in realtà sono stato un’altra volta con lui, nei mari della Cina abbiamo fatto una regata da Nankong fino al Vietnam, fantastico. Però è una passione irrisolta, perché in realtà, come dire “sei appassionato di macchine?”, certo se vai in macchina con un pilota di formula 1, per cui è facile appassionarsi alla vela se fai un giro con Soldini.
"Il mare è la metafora delle metafore, la navigazione, la scoperta"
Questa cosa mi richiama altre due cose, che sono la solitudine e l’avventura. Tu sei a tuo agio in mezzo alla folla, come abbiamo visto al Java Beach Party e ovunque, però ho la sensazione che tu abbia una specie di spinta verso la solitudine. Spesso fai dei viaggi da solo, collegati all’avventura.
Beh si, le due cose si nutrono l'una dell’altra, no? Per cui mi piace stare in mezzo al casino, mi piace stare in mezzo alla folla, mi piace soprattutto stare su un palco in mezzo alla folla, ma anche vado ai concerti. Io lavoro per stare a mio agio nel mondo, non mi piace lamentarmi del mondo o delle situazioni in cui mi trovo, per cui in qualsiasi situazione in cui mi trovo cerco di trovare il punto di contatto con quella situazione, e di solito c’è sempre un punto di contatto, siamo esseri umani! Però insomma il caos mi piace il casino mi piace, la folla mi piace, ci sto bene, mi perdo, mi fondo. Però questa cosa si nutre [con la solitudine], forse sono la stessa cosa, perché non c’è un luogo dove sei più solo che sul palcoscenico. Non c’è molta differenza tra un oceano o un deserto e un palco di fronte a 50 mila persone, la sensazione ha dei punti di contatto tra le due cose.
Forse la situazione nella quale mi sento meno a mio agio è quella di una compagnia ristretta. Lo so che è una cosa che forse un dottore potrebbe dargli un nome, per me è più semplice parlare di una cosa intima a una folla che [parlarne] a una persona. Di fronte ad una folla sono me stesso, non mento, sono sincero. Di fronte a una persona sola potrei montare delle maschere.
Hai citato Giovanni Soldini come un eroe, ci sono altri eroi nel Pantheon di Jovanotti?
Beh sì, un sacco di eroi. Rischio di dire una cosa banale ma quando penso ai miei genitori che han tirato su quattro figli da sola, a Roma, dico “ma pensa te”, questi qui che non si lamentavano mai. Io li considero eroici in quello che hanno fatto con noi in quegli anni lì. Poi ci sono gli sportivi, i grandi artisti, i grandi mistici, i grandi scrittori, i ragazzi! Come si fa a non sentirsi ammirati da sti ragazzi che stanno a Teheran per la strada. A non sentire che si stanno giocando la vita. Non c’è narcisismo. Io sono stato a Teheran per qualche giorno, e quando vedo quelle immagini sento che lì c’è qualcuno che ci sta dicendo qualcosa, ci sta dicendo che la vita va vissuta alla ricerca della libertà, che la libertà non è un bene scontato, che è il grande valore della nostra epoca, e va difesa, e va evidenziata e chiunque lo fa è un eroe.
Viva la liberà… come il titolo di una tua canzone
Viva la libertà, assolutamente! Io avevo, adesso non c’è più, avevo una zia comunista, in contrapposizione con il mio babbo che invece era proprio anticomunista. Quando ero già famoso la mia zia una volta mi disse «Ma tu sei proprio fissato con questa libertà eh!». Voleva sapere perché, io non ero in grado di dirglielo il perché, ma sentivo dentro di me forte che quella era la chiave di tutto, che quello è il punto su cui ci giochiamo tutto.
Allora, abbiamo citato gli eroi, viva la libertà, il trittico si completa con gli immortali. Due sono anche titoli di tue canzoni. Chi sono per te oggi gli immortali?
Gli immortali sono i mortali. Non mi piacciono le citazioni, ma in questo caso bisogna riconoscerli, perché insomma Borges dice “Non c’è un mortale che per un attimo nella sua vita non si sia sentito immortale”. Secondo me la musica ti apre questi varchi. Come i bambini, i bambini sono immortali perché non sanno che c’è la morte, e gli artisti lo sono quando sono nel loro momento creativo, perché lì si sospendono i parametri che ci contengono, il tempo e lo spazio.
"Si può essere creativi in qualsiasi ambito, nel momento in cui riesci ad essere nel flusso di te stesso"
C’è una canzona che non scriveresti più?
No, non c’è perché anche quelle sbagliate sono utili, sono dei passaggi fondamentali. Non esistono gli errori in un ambito in cui non fai danni, che è quello delle canzoni. Sai, io lavoro con le parole, per cui mi piace molto il fatto che “errare” significhi sia sbagliare sia vagare. Quindi l’errore è un modo per esplorare, guai a non fare errori. Forse non vanno chiamati errori, forse vanno chiamati semplicemente “un pezzo di strada”, una porta che devi passarci dentro. Certo che ho fatto canzoni che un po’ mi inteneriscono, un pochino mi imbarazzano, ma anche soprattutto come cantavo all’inizio dei dischi, la mia voce è veramente acerba, ma tanto acerba. Io non ho mai avuto neanche un’infarinatura vaga di come si usasse la voce come mezzo espressivo, per cui era veramente qualcosa di selvatico. E grazie al cielo ancora oggi questa cosa qui avviene a volte, però magari con un po’ più di esperienza, di trucchi, non so se sono trucchi, un po’ forse sono anche a trucchi. Cioè mi piace che il mio sia un mestiere fatto d’istinto , di sincerità, di profondità, ma anche un po’ da giostrai, anche un po’ un luna park, per cui il senso del trucco, del mettere in atto alcuni meccanismi che sai che funzionano, ci sta dentro quello che facciamo.
In un’intervista parlando di Gianni Morandi, che è un tuo grande amico, hai detto “Lui è fortunato perché è un interprete, io invece ho la dannazione di dover avere sempre le antenne dritte, perché vivo delle cose che accadono per poi trarre ispirazione per scrivere. Com’è questa dannazione?
È un’ossessione magica, non ci rinuncerei mai. In realtà dici “ne faresti a meno?”. No… Mi piace, ci vivo dentro. Il mio lavoro ha molto a che fare con l’officina, vuol dire mettersi lì con una cassetta degli attrezzi dentro la quale ci sono anche le immagini della tua infanzia, i desideri, le persone che conosci, le cose che ti sono accadute e cercare di capire come far stare in piedi una canzone che deve parlare a me prima di tutto, devo sentire io che quella cosa c’è ed è vera, e di conseguenza a più gente possibile. Però quando scrivo non penso mai al pubblico, penso sempre a una cosa che mi piaccia e che mi dia soddisfazione e che mi faccia fare un piccolo passo avanti rispetto alla conoscenza anche di me stesso.