Addio a Koni Steffen, riposerà tra i suoi ghiacci

Gli ultimi giorni dello scienziato scomparso in Groenlandia l’8 agosto 2020. Un racconto in prima persona

Un tocco di gomito accompagnato da un sorriso complice è l'ultimo ricordo che ho di Koni Steffen. Quattro giorni prima della sua morte. Ci siamo incrociati a Kangerlussuaq, l’aeroporto più grande della Groenlandia, tra i banchi spartani di una specie di tavola calda self service. Lui, suo figlio Simon e l'inseparabile Derek si preparavano a volare verso lo “Swiss Camp”, noi, dopo l’arrivo da Copenaghen, guardavamo alla tappa nella capitale Nuuk, per portare a casa qualche intervista. Ma già discutevamo dei giorni al campo. Di come sarebbe stato il tempo, del freddo, dei crepacci che le foto da satellite la settimana prima avevano mostrato e che l’anno scorso erano costati un’evacuazione d’emergenza voluta dalla Nasa, partner di ricerca.

"Vi aspetto là", mi ha detto, affabile e un po’ teatrale come ogni volta che l’ho incontrato, ma non ci saremmo più visti.

Il campo è collassato

Un paio di giorni dopo, le notizie che arrivavano dal campo remoto, situato sull'Ice Cap, la calotta glaciale groenlandese, a 70 km dalla costa dove si affaccia Ilulissat, erano tutt'altro che buone.

La piattaforma era collassata. Poggiata a mo' di palafitta su pali conficcati in profondità nel ghiaccio, aveva ceduto. I crepacci avevano iniziato a ingoiare i materiali che Koni aveva lasciato là per l'inverno.

E per lui si era trattato di un colpo pesante, con implicazioni, anche emotive, che non possiamo calcolare. Aveva scelto lui questa parte di calotta glaciale per tirare su il campo, 30 anni fa, nel 1990. Doveva essere in Tibet, aveva già fatto sopralluoghi, ma l’enormità delle richieste economiche cinesi gli aveva fatto cambiare idea, quasi per ripicca. Così era nato questo unicorno scientifico, un campeggio nel più ostile degli ambienti, dove, a fianco alla torre che raccoglieva dati, Koni portava i suoi studenti, amici scienziati, giornalisti e grandi personaggi, da Al Gore a Nancy Pelosi.

Da allora le avversità non erano mancate, il campo era già affondato o collassato altre volte, e altrettante era stato riparato, rifatto e migliorato. Ma questa, la sua trentesima missione, era diversa da tutte le altre: sarebbe stata l'ultima.

Dopo 30 anni, l'ultima missione

Era arrivato il momento di chiudere. Le antenne e le altre strumentazioni che hanno raccolto dati meteo e climatologici ininterrottamente per 30 anni, il vero "tesoro" inestimabile dello Swiss Camp, sarebbero rimaste, accudite dal governo danese. Ma il campo, con le sue tende rosse sulla immensa distesa gelata, il posto dove, a detta di tutti quelli che lo conoscevano bene, Koni appariva più felice e veramente "a casa", quello doveva chiudere.

“E’ una storia triste”, mi aveva detto nel suo ufficio a Zurigo 15 giorni prima di partire. “Ma ora devo passare la mano e quest’anno smantelleremo il campo”.

E così Koni, Simon e Derek erano atterrati. Dopo un primo momento, increduli davanti al campo sconquassato, si erano buttati a recuperare materiali e a segnare i crepacci, infilando nel ghiaccio stecche di bambù per segnalare le zone pericolose. Voragini enormi e profonde che la neve, caduta copiosa, aveva reso, coprendole, ancora più infide e rischiose.

Da sinistra: Simon, Koni, Derek

Da sinistra: Simon, Koni, Derek

Noi intanto attendevamo aggiornamenti a Ilulissat, pronti a salire sull’elicottero per girare tutte le immagini e le interviste che la nuova situazione ci avrebbe permesso. In capo a un giorno e mezzo di lavoro ininterrotto, il campo era diventato “abitabile”, le tende di Koni, Simon e Derek erano state montate e si era aggiunta anche quella di Jason Box, professore di glaciologia, ex allievo di Koni in Colorado, che ora rende i suoi servigi proprio all’istituto di ricerca del ministero del clima e dell’energia danese a Copenaghen, che si occuperà delle 18 stazioni climatiche sparse per la Groenlandia.

“Il campo è ok” scrive Koni all’amico Paolo Solari Bozzi, che ci accompagna nel viaggio, “forse non potrete fermarvi tutti i giorni che avevamo pianificato”, ma stringendosi, ce l’avremmo fatta. Questo era il succo.

Stavamo per andare a cena quando è arrivata la telefonata. Jason ha chiamato dal satellitare Flemming, nostro ospite e elicotterista di Air Greenland. “Koni è sparito, non lo troviamo più, chiamate i soccorsi”.

La tragedia

Come è possibile che sia sparito in un campo così ristretto, su un terreno che conosceva così bene? Uno come lui, così a suo agio persino nei mulini glaciali più terrificanti, come può aver commesso una sciocchezza o un’imprudenza? Continuare a farsi domande a cui non era possibile dare risposta è stata la nostra maniera di processare l’impensabile, cercando di alimentare una incertezza del tutto irrazionale, spazzata via ogni volta che incrociavo gli occhi gonfi di lacrime di Flemming. Occhi che le han viste tutte. La speranza a quel punto rimaneva un puro esercizio. Rivederlo vivo, impossibile. Anche solo rivederlo, impossibile.

L’Arctic Kommando partito con “il bestione”, l’elicottero Sikorsky da Kangerlussuaq, non ci ha messo tanto ad arrivare. Sono scesi, hanno cercato, hanno ascoltato il racconto di Simon, hanno capito. Hanno individuato anche il crepaccio dove probabilmente è caduto. C’è una lastra di ghiaccio sul fondo, dopo 8 metri di salto, con una rottura fresca. Sotto, scorre il fiume di fusione. Koni forse è là. A pochi metri da una motoslitta che hanno ritrovato in bilico, a cavalcioni del crepaccio.

Gli uomini del Kommando se ne vanno. Le ore sono passate. Non c’è più niente da fare.

La mattina dopo ci chiama Jason. Ci chiede se può usare il nostro elicottero per andare via da là. “Non ce la facciamo più, vogliamo andarcene il prima possibile”.

Ovviamente acconsentiamo e li aspettiamo all’eliporto. Scendono con l’IceCap stampato in faccia, la pelle annerita dal freddo e dal riverbero del ghiaccio, gli occhi insofferenti di chi non dorme e piange da troppe ore.

Stavamo lavorando alla torre, 120 metri dal campo al massimo” inizia subito Simon. Non gli ho chiesto nulla, ma è lui che ha voglia di parlare. Ci dice che Koni ha lasciato lui, Derek e Jason a lavorare per un po’ all’antenna, dirigendosi verso il campo. Non si sono preoccupati dal non vedere Koni aggirarsi per il campo, era solito schiacciare un pisolino nel primo pomeriggio e hanno pensato che così fosse. Ma dopo due ore di assenza, insospettito, Simon ha iniziato a chiamarlo.

Nessuna risposta. La tenda vuota. Lo hanno cercato furiosamente, provando persino a infilare il drone nel crepaccio, con il solo risultato di perderlo sul fondo. Poi la telefonata di Jason.

“Ora voglio solo fare una doccia”, Simon mi saluta. Penso che non so quando lo rivedrò. Il giorno dopo, tempo permettendo, saremo noi a dover andare al campo. Per fare il nostro lavoro, filmare quello che è rimasto. Raccontare l’incredibile storia in cui ci siamo trovati.

“30 nodi è il limite per partire”, ci dice Jorgen, il pilota dell’elicottero la mattina dopo. “Ci sono 30 nodi, per me è ok, a voi va bene?”. Dico di sì in maniera automatica, ma la testa è tutta sulla sorpresa che ho trovato nel pullmino che ci porta in aeroporto. Simon vuole volare con noi. “Qualcuno di noi doveva venire, per mostrarvi le zone sicure e quelle da evitare. Ho deciso di venire io”.

Ritorno a Swiss Camp con Simon

Saliamo sull’elicottero in silenzio e così rimaniamo per tutti i 30 minuti di sorvolo, prima sulla costellazione di iceberg che attraversano il fiordo e poi sulla calotta glaciale, una distesa candida trapuntata qua è là di laghi turchesi di fusione e dai crepacci che dall’alto somigliano a strane smagliature. La tensione è alta. Il campo è un luogo non sicuro, dobbiamo stare attenti a come ci muoviamo, in più abbiamo poco tempo per fare quello che vorremmo e ogni contrattempo potrebbe compromettere il lavoro. Ma soprattutto il campo è ora un luogo sacro. Koni è là. E con noi il suo figlio trentenne sta tornando nel mausoleo di ghiaccio dove probabilmente riposerà per sempre.

All’atterraggio le mascelle si serrano non solo per il freddo. Simon mi aveva avvisato prima di partire: “Sono felice di raccontare qualcosa alla telecamera, solo non so come reagirò quando arriviamo”.

Glielo chiedo subito: “Te la senti? Se no non c’è nessun problema” “Sì, mi sento tranquillo, dammi solo il tempo di una sigaretta”.

Approntiamo tutto, un occhio alla strumentazione, uno ai crepacci, ben visibili ma molto vicini. Eppure il “sentiero” sicuro tracciato da Simon e gli altri prima di andar via sembra darci un margine di movimento in sicurezza.

Quando inizia a parlare, Simon è emozionato e precipitoso, poi si tranquillizza, infine si apre.

Item 1 of 3

"Lo lasceremo qui"

“Molti qui soffrivano il freddo. Venivamo in primavera, le temperature medie notturne sono tra i 10° e i 20° sottozero. Ci vuole un po’ ad abituarsi a dormire in una tenda a -20°”

“Non per Koni, di lui dicevano che avesse antigelo al posto del sangue. Era così, beveva espresso, mangiava a malapena e l’antigelo scorreva nelle sue vene”.

“Per Koni non esisteva il freddo, la parola ‘freddo’ non era nel suo vocabolario. ‘Freschino’ diceva. C’è solo ‘freschino’. Intorno gli altri tremavano dal freddo, ma per lui era solo freschino.

“Questo era Koni, amava questo posto, viveva per questo. Ed è anche per questo che credo che lo lasceremo qui”. Non c’era niente da aggiungere. Forse Simon ne aveva bisogno in quel momento. Forse, a dire il vero lo spero, lo ha aiutato in quei giorni di emotività inimmaginabile.

I dati, il suo tesoro

Appena sceso dall’elicottero a Ilulissat, Simon mi aveva chiesto che tipo di documentario stavamo girando con suo padre. Gli ho raccontato come lo avevo convinto, a Zurigo, parlandogli della mia intenzione di rappresentare le difficoltà, i sacrifici che gli scienziati devono passare per raccogliere quei dati, così cruciali per la nostra vita.

Il motivo per cui Koni era diventato il massimo esperto di fusione glaciale polare era proprio questo: l’attaccamento ossessivo ai suoi dati, la volontà e la capacità di mantenere attiva la torre che raccoglieva dati climatologici ininterrottamente dal 1990, da trent’anni.

I suoi dati, che gli hanno permesso di capire prima di chiunque altro che il tasso di destabilizzazione dell’ambiente polare era ben più rapido di quanto si supponeva. Tanto che lui stesso raccontava che analizzando i dati dopo i primi 10 anni, i risultati erano talmente eclatanti e preoccupanti che pensava di essersi sbagliato. Invece non mentivano, i suoi dati. Il suo tesoro. Il valore inestimabile dello Swiss Camp.

Simon mi aveva sorriso. Amaro. “Sai qual è stata la sua ultima frase? "Vado a controllare i miei dati".

Reportage: il video