Lavoro nero
Viaggio nei ghetti del foggiano, dove migliaia di nordafricani vivono in condizioni disumane, vittime del ricatto dei caporali
Se i burocrati che hanno deciso di catalogarli come “insediamenti informali” li avessero visti almeno in fotografia, avrebbero trovato troppo elegante persino la definizione di baraccopoli. I ghetti del foggiano, o comunque li si voglia chiamare, sono posti nei quali nessun essere umano dovrebbe essere costretto a vivere. E invece, nel pieno della stagione dei raccolti, tra le baracche di Borgo Mezzanone, Torretta Antonacci, Tre Santi, Stornara, Tre Titoli e Borgo Cicerone, si arrivano a contare fino a diecimila presenze. Gli “invisibili” del Tavoliere (capiremo meglio più avanti perché vengono definiti così) arrivano in prevalenza dall’Africa, sono giovani e forti, pochi sono provvisti di permesso di soggiorno, tutti sono vittime predestinate dei caporali, i veri padroni delle campagne della Capitanata. Un passaggio, quest’ultimo, che ci spiega molto bene Daniele Iacovelli, segretario generale Flai Cgil Foggia, che tra queste baracche lavora da anni: “i ghetti nascono perché all’interno questi invisibili hanno la possibilità di incontrare il lavoro attraverso i caporali. La figura del caporale è l’anello di congiunzione tra il mondo del lavoro e la loro condizione di sfruttati che vivono ai limiti della sopravvivenza”. Nelle campagne del foggiano, uno dei principali serbatoi del caporalato, è il ghetto di Borgo Mezzanone.
La pista di Borgo Mezzanone
Dismessa dopo la guerra in Kosovo, l’ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone oggi ospita la più grande baraccopoli d’Italia. Secondo un rapporto di Ministero del Lavoro e Anci (“Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare”), ci vivono circa quattromila persone, in prevalenza uomini adulti di età compresa tra i 20 e i 40 anni che arrivano in genere da Senegal, Nigeria, Gambia e Ghana. Si dorme in baracche di legno che d’inverno vanno riscaldate con stufe di fortuna o bracieri, e succede non di rado che qualcuno muoia in un incendio o ucciso dalle esalazioni di monossido di carbonio. L’energia elettrica arriva dagli allacci abusivi alla linea dell’adiacente centro di accoglienza della Prefettura; mancano, invece, acqua corrente e bagni che possano essere definiti tali. Non esiste, infine, un sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti. Una situazione di assoluta precarietà che fa a pugni, tuttavia, con “l’organizzazione” che regola la vita sociale all’interno del ghetto. È lo stesso Rapporto di Ministero del Lavoro e Anci a spiegare questo aspetto: “Il carattere stabile dell’insediamento di Borgo Mezzanone si denota dalle attività presenti all’interno: ci sono circa 60 esercizi di ristorazione, bar, empori, parrucchieri, gommisti, meccanici, forni e rivendite di bombole a gas. Sono inoltre presenti 3 moschee ed una chiesa”. E poi i “bordelli”; la prostituzione è una delle forme di sfruttamento che si consumano tra queste baracche: “la componente femminile che vive nell’insediamento è considerata dagli operatori delle organizzazioni presenti una ulteriore vulnerabilità, dato il frequente sfruttamento sessuale, ed il fenomeno della tratta, ancor più evidente durante la stagione estiva”.
Gli invisibili
Gli operatori che lavorano nei ghetti usano spesso l’espressione “invisibili” per definire gli abitanti delle baraccopoli. La condizione che crea questa invisibilità è la mancanza di documenti, che poi è la chiave che li tiene imprigionati in questi posti. A Torretta Antonacci, c’è quel che rimane del “gran ghetto” di Rignano Garganico, sopravvissuto nel 2017 ad uno sgombero e al devastante incendio che ne seguì. Che poi, in realtà, non è poco; ci vivono, infatti, circa duemila persone, divise tra i containers fatti arrivare dalla Regione Puglia e le baracche che quei containers avrebbero dovuto svuotare, e che invece hanno subito trovato nuovi inquilini. Qui, da qualche anno, la asl di Foggia fa arrivare ogni settimana un camper per portare assistenza medica, psicologica e legale. E ogni volta, le sedute più affollate sono quelle con l’avvocato. Alessandra Granata, un legale impegnato in questo progetto, ci spiega come molte delle persone che vivono in questi insediamenti siano irregolari nonostante siano in Italia da anni, e da anni lavorino nei nostri campi, contribuendo alla raccolta dei nostri prodotti. Altre, invece, hanno enormi problematiche con il rinnovo del permesso, per tutta una serie di motivi, a partire dalla mancanza di un domicilio, che non può essere, ovviamente, una baracca. Eppure, un lavoro, nei campi, riescono a trovarlo tutti. Da abusivi. “Le persone senza documenti – ci spiega l’avvocato Granata – sono le più esposte allo sfruttamento lavorativo, quelle che meno possono pretendere, le principali vittime del ricatto dei caporali”.
Casa Sankara
Dopo lo sgombero del 2017, alcuni degli ospiti del gran ghetto di Rignano si trasferirono nel vicino insediamento di Casa Sankara, dove stava prendendo forma un progetto che ad oggi rimane l’unica vera risposta ai ghetti. Grazie all’intuizione di Stefano Fumarulo, giovane dirigente impegnato nell’antimafia prematuramente scomparso, la Regione Puglia aveva deciso di concedere a titolo gratuito l’azienda agricola Fortore a un’associazione di volontariato creata da nordafricani. “Abbiate il coraggio di sognare e combattere il caporalato” ripeteva Fumarulo a Mbaye Ndiaye, oggi come allora tra i referenti del progetto. “Il ghetto non è un luogo fisico, ma una comunità – ama ripetere Mbaye – e per chiudere la comunità, dobbiamo trovare un strada per far partire dei ragazzi dall’illegalità dei ghetti, verso la legalità”. Il cammino verso la regolarizzazione è assicurato, a casa Sankara, dallo sportello socio-legale, ma nel frattempo si cerca di dare dignità a queste persone attraverso il lavoro, usando, in maniera lecita, le stesse armi con le quali i caporali rendono schiavi gli invisibili dei ghetti. “Per togliere carne alla mafia – spiega ancora Mbaye – servono un tetto dignitoso e un mezzo di trasporto verso i campi”. E così, Casa Sankara, dai 33 posti letto con i quali ha iniziato nel 2017, oggi grazie ai containers della Regione arriva ad ospitare e offrire servizi a 500 persone, con due furgoni che fanno la spola con i campi per portarli al lavoro. I pomodori prodotti da Casa Sankara sono diventati un marchio - “Riaccolto” - che presto finirà anche sulle confezioni della pasta realizzata con il grano dei suoi terreni. Ma qui c’è anche una sartoria, che durante il lockdown ha cucito migliaia di mascherine, e poi aule per corsi di formazione e di scuola guida.
La sfida del PNRR
Il modello Casa Sankara ha prodotto risultati sicuramente interessanti, ma nel lungo periodo non ci si può certo accontentare di sostituire le baracche con i containers. I ghetti vanno cancellati, come ripetono da anni i ministri dell’Interno, ma gli slogan non bastano, servono progetti che puntino, finalmente, alla regolarizzazione degli invisibili e alla loro integrazione nel nostro tessuto sociale. Ed è proprio a progetti che vadano in questa direzione, che sono destinati i fondi stanziati dal Pnrr “per il superamento degli insediamenti abusivi e per combattere lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura”. Duecento milioni di euro che il Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ripartisce tra 37 Comuni individuati in base alla mappatura realizzata in collaborazione con l’Anci. Il finanziamento prevede una quota fissa e poi una parte variabile che tiene conto del numero delle presenze straniere denunciate, e dell’anzianità degli insediamenti. Alla Puglia andrà la fetta più grossa della torta: 114 milioni per i 13 comuni che hanno presentato i progetti. Più della metà della somma è destinata ai sindaci di Manfredonia e San Severo, nei cui territori ricadono i ghetti di Borgo Mezzanone (53 milioni) e Torretta Antonacci (28 milioni). Sulla carta, è un’occasione imperdibile per mettere fine ad una piaga ormai decennale, ma nei fatti, il compito dei sindaci, e soprattutto dei lor piccoli uffici tecnici, si sta rivelando assai complesso. La Regione Puglia ha provato a dare una mano a questi comuni, mettendo a loro disposizione una convenzione con il Politecnico di Bari e le università di Foggia e Lecce. Il termine ultimo per la presentazione dei progetti definitivi è la fine di giugno, manca poco insomma, e c’è il rischio che qualcuno possa fermarsi prima. “Siamo in ritardo - ammette sconsolato Daniele Iacovelli (Flai Cgil) – ci stiamo accorgendo che le amministrazioni non hanno contezza del problema, e ci sono sindaci che non sapevano nemmeno dell’esistenza di questi posti”.