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"Laggiù qualcuno mi ama", Mario Martone racconta Massimo Troisi al Festival di Berlino

Cinema

Denise Negri

I suoi film, la sua grazie, la sua potenza poetica ma anche la sua voce e i suoi pensieri rivivono nel documentario che Mario Martone dedica al grande artista napoletano in occasione dei settant'anni dalla sua nascita

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Uscirà in sala dal prossimo 23 febbraio con alcune anteprime già il 19 sempre di questo mese ed è stato presentato nella sezione Berlinale Special.

Pensato in occasione dei 70 anni dalla nascita di Massimo Troisi, “Laggiù qualcuno mi ama” è il film/documentario che Mario Martone dedica al grande attore e regista originario di San Giorgio a Cremano, alla periferia di Napoli.

E poi c'è molto di più: ci sono profonda stima e grande affetto, riconoscenza, curiosità, instancabile voglia di raccontare la grandezza di Massimo Troisi, la sua sensibilità artistica e ovviamente il suo lascito.
 

Ecco le parole di Mario Martone

 

Partirei da una delle cose che più mi hanno colpito del suo film e che lei ripete spesso: “la fame di vita” che aveva Troisi. In cosa consisteva?

 

“E’ un’espressione che mi piace molto, “fame di vita” e mi fa piacere che lei l’abbia evidenziata. Massimo aveva questo desiderio di essere immerso nella vita che significa l’amore, la socialità, la politica, era anche immerso nel suo cinema fatto con grande rigore. E già in questo modo si scardina uno dei primi luoghi comuni che lo riguardano, ossia che Massimo fosse pigro. Sì, in realtà magari lo era anche, perché è vero che poteva “distendere i suoi tempi” ma era comunque una pigrizia vigile perché in ogni momento lui in realtà sapeva esattamente che cosa poteva fare per far progredire il discorso del suo cinema.

Quindi sostanzialmente la sua fame di vita e la sua fame di arte erano tutt’uno in lui.”

 

Troisi sentiva anche molto forte anche l’impegno politico e sociale, sia nella vita che nei film. Quindi si aveva subito l’impressione che il suo non fosse un modo di fare cinema “leggero”

 

“In questo film c’è la straordinaria possibilità di vedere dei foglietti su cui Massimo scriveva e annotava i suoi pensieri, e di questo devo ringraziare Anna Pavignano che li ha conservati e ce li ha mostrati, così come la sua agenda dell’anno in cui venne operato al cuore negli Stati Uniti e persino le registrazioni della sua voce. Vedendo tutte queste cose insieme si capisce benissimo come lui fosse molto attento all’aspetto politico tanto più che si formò in anni in cui la politica significava molto e Napoli stessa era una città in grande cambiamento.

Penso però che quello che è interessante cogliere è che questo aspetto ribelle di Massimo si sia sempre mantenuto in tutti i suoi lavori, fino a “Il postino”.

Direi però che la sua è una disposizione dolce perché Massimo non era assertivo e per certi versi la fragilità fisica che aveva lo portava a pensare di non potersi esporre più di tanto, anche s epoi si esponeva eccome!.

Ad ogni modo nel suo lavoro c’era questo modo di fare politica alla “nouvelle vague” ossia senza manifesti o ideologie sbandierate ma semplicemente di farla guardando la vita, raccontandola e cercando di capire anche il mondo, la società, le ingiustizie che ci circondano, la sofferenza.

In questo consiste, ancora una volta, la sua fame di vita e questo era il modo di Massimo di fare politica.”

 

Come si racconta Massimo Troisi?

 

“Intanto mi sono messo anche io sullo schermo e per me è stata una cosa difficilissima, ho impiegato mesi a convincermi di farlo, perché non sono proprio il tipo!!. Però avevo capito che l’unico modo per raccontare Massimo fosse quello di avere un confronto personale, un dialogo “tra di noi”.

Poi l’ho voluto ovviamente raccontare attraverso spezzoni dei suoi film che ho montato nel documentario.

In questo modo è come se il cinema di Troisi tornasse in sala invitando gli spettatori a guardare non soltanto il grande comico o attore, ma anche il grande regista e la coerenza del suo fare cinema”.

 

Troisi soffriva del fatto di non sentirsi valorizzato come regista ma solo come attore?

 

“In parte sì e devo dire che è una cosa che venne fuori anche tra di noi, seppur ci siamo conosciuti per poco tempo.

Lui in realtà metteva moltissima cura nei suoi film, non era affatto sciatto e non faceva un cinema in cui metteva la macchina da presa davanti agli attori come capitava!. Inoltre Massimo fu “rivoluzionario” anche per il fatto che scriveva i suoi film con una ragazza di Torino (Anna Pavignano) e per lui che veniva dalla periferia di Napoli e lavorava con “La smorfia” era comunque una scelta insolita.

Anna era una ragazza che veniva dai movimenti femministi e questo fa capire che il suo cinema nasceva da una dialettica uomo-donna che metteva in campo una serie di questioni che nel cinema italiano di allora venivano allegramente disattese.

Direi che basta già considerare questo come punto di partenza per capire che il suo era un cinema complesso.”

 

Chi è stato Massimo Troisi?

 

“Massimo è stato un dono che il Dio del cinema e dell’arte ha fatto a tutti noi. In lui si univano grazia e potenza, in una dimensione umana bellissima e dolce che non saprei come descrivere se non appunto come un dono”.