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"Appunti di un venditore di donne", l’intervista a Fabio Resinaro

Cinema sky cinema

Marco Agustoni

Foto: Di Benedetto

Il regista del film tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Faletti, in prima tv il 25 giugno su Sky Cinema Uno, racconta la sua esperienza dietro la macchina da presa con Mario Sgueglia, Paolo Rossi e gli altri attori sul set

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Venerdì 25 giugno alle 21.15, su Sky Cinema Uno va in onda in prima visione tv l’atteso adattamento di Appunti di un venditore di donne di Giorgio Faletti a opera di Fabio Resinaro (disponibile anche On Demand e in streaming su NOW).

 

Il regista di Mine e DolceRoma ha voluto con sé sul set Mario Sgueglia, Miriam Dalmazio, Libero De Rienzo, Antonio Gerardi, Francesco Montanari e due veterani come Paolo Rossi e Michele Placido.


Appunti di un venditore di donne
racconta la storia di Bravo, che nella Milano da bere sul finire degli anni ’70 si guadagna da vivere come procacciatore di (come del resto lascia intuire il titolo) di donne e trascorre la sua vita fra locali notturni in compagnia dell’amico Daytona. Tutto cambia, però, dopo l’incontro con Carla.

 

Ci ha parlato del film nel corso di un’intervista esclusiva lo stesso Fabio Resinaro.

Cosa ti ha intrigato di questa storia, tanto da convincerti a trarne un film?
Mi hanno attratto diverse cose. Innanzitutto mi piacciono i personaggi che si infiltrano in un sistema per sabotarlo dall’interno. Poi c’è il tema generazionale di potere, i padri che mangiano i figli. E per finire ho amato le atmosfere ricreate da Faletti, che io non ho vissuto direttamente, dato che sono nato nel 1980, ma che quando ero bambino era possibile ancora percepire.

 

A proposito delle atmosfere, come hai lavorato per ricrearle?
Dei vaghi ricordi degli anni successivi, 1985-86, ancora ce li avevo in mente. Ma ovviamente c’è stato un grandissimo lavoro di ricerca. Tutto quello che c’era da vedere del periodo - foto, documenti, film poliziotteschi ambientati a Milano – l’ho visto. Si è trattato, in ogni caso, più di un lavoro sulle atmosfere che sul linguaggio utilizzato.

 

Avendo lavorato anche alla sceneggiatura, come hai approcciato il materiale di partenza?
Non ci sono state problematiche o conflitti, perché l’approccio di Faletti è già di per sé molto cinematografico. Ovviamente dei cambiamenti ho dovuto apportarli, più che altro per questioni di ritmo e di equilibri complessivi, ma ho cercato di preservare lo spirito e la natura del libro, tanto che grossi stravolgimenti non ce ne sono. La divergenza maggiore riguarda il terzo atto, che però cambia solo nella forma dell’azione e non nella sostanza di quello che accade.

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Nella ricostruzione della Milano dell’epoca ti ha aiutato avere sul set un milanese non di nascita, ma di adozione come Paolo Rossi?
Sì. Lui era presente in quegli anni al Derby, di cui l’Ascot Club è un po’ una nostra sintesi, e conosceva Faletti. Conosceva anche il personaggio di Daytona, che però nella realtà veniva chiamato in un modo diverso, Le Mans. Ci ha raccontato di alcune dinamiche del Derby e di com’era la situazione. Il posto era frequentato da cabarettisti, criminali e papponi… in un certo senso un underground di disobbedienti, perché allora fare cabaret significava disobbedire. Certo, questi personaggi erano molto diversi fra loro, perché i comici fanno ridere, mentre i criminali non tanto, ma un punto di contatto c’era.

 

Hai trovato dei paralleli fra quegli anni e i tempi correnti?
Penso che i temi del libro e del film siano rilevanti tutt’oggi. Però, rispetto ad allora c’è meno resistenza. Per questo motivo trovo che il film sia interessante: perché apre una finestra su una reazione a un sistema che si stava facendo opprimente.

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Nella tua carriera sei passato in maniera agevole da un genere all'altro: come ti sei trovato con il noir e il thriller?
Sono un grande studioso di linguaggi cinematografici, oserei dire quasi ossessivo. E mi piace molto sperimentare, con i linguaggi. I generi sono il perimetro all’interno di cui muoversi, ma lì dentro poi hai la libertà di sviluppare i temi che hai a cuore, cosa che credo di avere sempre fatto nei miei film. In questo caso è stato tutto molto spontaneo, perché si tratta di un linguaggio di cui mi sono sempre nutrito. Ho avuto maggiori difficoltà, per dire, con il linguaggio di un film come Dolceroma.


Come hai capito che Mario Sgueglia era l’attore giusto per interpretare Bravo?
Era quello che portava più verità alla parte e allo stesso tempo è stato in grado di elaborare il personaggio in maniera personale, con una comprensione profonda dei vari significati che portava con sé. Quel suo essere un eroe non eroe che deve combattere con le armi che ha a disposizione…


Qual è stata la scena che ti ha creato maggiori difficoltà?
In particolare, nessuna: abbiamo proceduto spediti con le “giuste difficoltà”. Però abbiamo sicuramente patito la scelta di fare un film notturno, oltretutto girato in inverno: questo negli esterni ci ha sicuramente fatto soffrire…


E quella che ti ha regalato la soddisfazione più grande?
Una scena di sesso. Trovo che le scene di sesso non siano quasi mai interessanti. Forse per questo, quando mi capitano, mi ci applico di più. Sono molto soddisfatto di com’è venuta questa, perché è abbastanza insolita, dato che doveva far fare l’amore a due personaggi senza che facessero l’amore.

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