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Fine vita, il diritto senza legge

Politica

Daria Paoletti

©Getty

La vita, la malattia, la sofferenza. La libertà. I diritti. C’è tutto questo dentro al dibattito sul fine vita, divisivo e destinato a riaccendersi a pochi giorni dall’ennesima sentenza della Corte Costituzionale in materia di suicidio assistito

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Se l’eutanasia attiva, in cui è il medico a procurare la morte di una persona cosciente e in grado di capire le conseguenze delle proprie azioni, in Italia è illegale, nel caso del suicidio assistito è il malato che si autosomministra il farmaco letale. E nel nostro Paese è consentito.

Ma cosa si può fare in Italia? La risposta, un po’ paradossale è: “dipende”

Dipende dalle interpretazioni, dalla Regione di appartenenza, dall’Azienda sanitaria. Dipende anche dai tribunali.

Perché una legge sul suicidio assistito non c’è e pure è stato riconosciuto e formalizzato il diritto ad ottenerlo. Si può fare, ma non è normato. Dunque ogni richiesta passa attraverso un iter complesso, lungo, e faticoso.

Chi e come possa accedere al suicidio assistito lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con una sentenza storica nel 2019. Ma l’assenza di una legge rende tutto molto complesso per i malati che devono passare attraverso richieste che di volta in volta vengono valutate dalle Aziende sanitarie e attraverso ricorsi giudiziari. Inascoltati i vari presidenti della Consulta hanno chiesto, sin dal 2019, al Parlamento di colmare questo vuoto normativo. Appelli caduti sempre nel vuoto

 

UNA LEGGE CHE NON ARRIVA: I CASI, LE NORME E LE SENTENZE

 

Il fine vita è per il legislatore una sorta di buco nero, un diritto che tra resistenze e reticenze è riconosciuto solo in parte.

E non che siano mancate le proposte di legge. La prima risale a metà degli anni ‘80. E’ il 19 dicembre 1984 quando il deputato Loris Fortuna, uno dei padri della legge sul divorzio, presenta una proposta parlamentare per consentire l’eutanasia. Sono trascorsi 40 anni e una legge sul fine vita non è ancora stata varata.

E pure i casi di cronaca hanno incardinato dibattiti pubblici, mosso attivisti, e, persino, costretto Governi e Parlamenti ad affrontare il tema.

Per paradosso il diritto a decidere di sé stessi è stato conquistato commettendo reati. Si chiama ‘disobbedienza civile’, e in Italia è quasi tutt’uno con la storia dei Radicali, di Marco Cappato e dell’associazione Luca Coscioni. Ci sono i suoi membri al fianco di Piergiorgio Welby, che immobile in un letto, con la voce sintetica dice al Paese quello che il Paese non aveva ancora sentito: “Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.

Welby chiede l’intervento di Giorgio Napolitano che sferza Governo e Parlamento, li invita al confronto perché, scrive l’allora Capo dello Stato “il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”. Parole inascoltate.

Il medico che il 20 dicembre 2006 seda e stacca il respiratore a Piergiorgio Welby conferma di averlo aiutato a morire in ossequio alla sua volontà ma contro la decisione dei giudici. I magistrati però lo assolvono, stabilendo un principio chiave: non è punibile il medico che adempie al dovere di dare seguito alle richieste del malato, compresa quella di rifiutare le terapie.

Con la morte di Welby il dibattito pubblico torna a contrarsi per riesplodere nel 2009. E’ la vicenda Englaro a squarciare il silenzio. Per 17 anni e 22 giorni i genitori di Eluana Englaro, in stato vegetativo dopo un incidente, sostengono nei tribunali quello che la ragazza non può più dire ma che ha affermato in passato: che non avrebbe voluto sopravvivere in quel modo. Il Paese si divide: con e contro i genitori di Eluana. In piazza cattolici e conservatori protestano, anche davanti alla clinica dove Eluana è ricoverata. L’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi tenta addirittura la strada del decreto d’urgenza per fermare medici e genitori. Un decreto mai nato per la contrarietà granitica di Giorgio Napolitano.

Alla fine i genitori ottengono che nutrizione e idratazione artificiale vengano interrotti, e la sera del 9 febbraio 2009, mentre in Senato si corre per varare una legge che lo impedisca, Englaro muore. “Ammazzata” urlerà l’allora vicepresidente del partito di Berlusconi, Gaetano Quagliarello. “Da una mano assassina” rincarerà il Vaticano.

E pure dopo quella morte tutto si ferma, ancora una volta. I progetti di legge tornano a prendere polvere in commissione, senza neanche approdare in Aula.

Serviranno altri casi, altri corpi, e altre sofferenze per arrivare all’unica legge prodotta ad oggi sul fine vita, la 219 del 2017, nota come “testamento biologico”, le “disposizioni anticipate di trattamento” . Sancisce la possibilità di decidere oggi come e se voler essere curati in futuro nel caso non ci si possa esprimere. Considera trattamenti sanitari anche la nutrizione e l’idratazione artificiale.

Un punto fermo, che si incardina sull’articolo 32 della Costituzione: nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

 

IL CASO FABIANI E LA CONSULTA

 

Una norma che affonda le sue radici nel caso Englaro, ma che ne attraversa un altro, destinato a cambiare il Paese. È la vicenda di Fabiano Antoniani. Tetraplegico dopo un incidente racconta pubblicamente la sua storia: “Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia". Lo ascolta Marco Cappato che nel 2017 lo accompagna in Svizzera per morire e poi si autodenuncia per aiuto al suicidio.

Parte un processo che arriva di grado in grado fino alla Corte Costituzionale. E alla seduta della Corte partecipano, ad opponendum, tre associazioni: il Centro Studi «Rosario Livatino», quella di volontariato «Vita è» e il Movimento per la vita italiano. Interventi dichiarati inammissibili ma le loro posizioni riflettono pezzi di società, che trovano riferimento nei partiti di centrodestra, e nell’area cattolica.

Nel silenzio totale del Parlamento e del Governo, la Consulta scrive una sentenza storica, dichiarando l’illegittimità costituzionale di parte dell’art 580 del codice penale e stabilisce che non

è reato aiutare a morire qualcuno se la persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Queste condizioni devono essere verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, con il parere del comitato etico territorialmente competente. E sono le condizioni che da quel momento in poi rendono possibile il suicidio assistito. Possibile ma non normato, perché quello può farlo solo una legge. Che invece continua a mancare.

E’ un diritto monco. Le richieste che arrivano dopo la sentenza restano in un limbo di disapplicazione e di interpretazioni restrittive.

 

I MALATI. TRA DIRITTI NEGATI E PASSI AVANTI

 

L’Italia diventa un Paese a “diritto variabile”.

Nel 2020 nella Marche Mario chiede alla Asl l’accesso alla morte assistita. La battaglia legale dura un anno. L’anno dopo Mario ottiene quel consenso ma deve procurarsi a sue spese farmaco e strumentazione: lo Stato si limita ad autorizzare, senza preoccuparsi di accompagnare il paziente.

Nel novembre del 2023 In Friuli Venezia Giulia, invece ad Anna la Regione fornisce farmaco e strumenti. “Sarebbe stata una tortura non essere avere la libertà di poter scegliere” il suo ultimo messaggio.

In Veneto, a luglio 2023, l’amministrazione riconosce a Gloria che anche le cure chemioterapiche sono un trattamento di sostegno vitale, e non solo l’essere dipendenti da macchinari per respirare.

Qualche chilometro più in giù, a Roma, ad ottobre 2023, lo Stato a Sibilla Barbieri, malata oncologica dice di no, dice che non può accedere al suicidio assistito. Le tocca denunciare quella che considera una discriminazione tra malati, prima di farsi accompagnare in Svizzera a morire.

La stessa decisione era stata imposta in Toscana un anno prima a Massimiliano, affetto da sclerosi multipla: la Regione nega l’accesso al suicidio assistito perché non ha bisogno di macchinari per sopravvivere. Una possibile discriminazione sulla quale, a breve, tornerà ad esprimersi la Corte Costituzionale

In realtà un tentativo di mettere mano ad una legge sul fine vita è stato fatto: dopo anni di immobilismo il 10 marzo 2021 la maggioranza di centrosinistra alla Camera approva un disegno di legge. Con la caduta del governo Draghi quel percorso però termina.

Allo stallo l’associazione Luca Coscioni replica con la campagna “liberi subito” perché siano le Regioni a produrre leggi sul suicidio assistito. Una sfida che però tra bocciature e rinvii per ora non sta ottenendo risultati. Anche perché il rischio è che queste leggi vengano impugnate dal governo e si debba comunque passare ancora una volta dal Corte Costituzionale per valutarne la legittimità. Ipotesi tutt’altro remota, minacciata ad esempio in Piemonte dai rappresentanti della Lega.

Ha tentato una strada diversa l’Emilia Romagna, evitando di ricorrere ad una legge, che rischiava anche di non avere una maggioranza pronta ad approvarla, come accaduto in Veneto. La Giunta di Stefano Bonaccini ha emanato invece una delibera che garantisce un iter certo, e soprattutto tempi certi: 42 giorni per rispondere alla richiesta di suicidio assistito. Il Governo Meloni contro questa delibera ha presentato ricorso al Tar.

L’ultimo rapporto Censis racconta che il 74% degli italiani è a favore dell’eutanasia con percentuali trasversali al corpo sociale, che arrivano all’82,8% tra i giovani e al 79,2% tra i laureati. Numeri e percentuali che evidentemente non bastano alla politica. Che pure sta timidamente tornando ad occuparsi dell’argomento.

Al Senato in Commissione si stanno esaminando ben cinque disegni di legge in materia di morte volontaria medicalmente assistita e sul reato di istigazione o aiuto al suicidio. Una delle proposte queste di fatto ricalca il disegno di legge approvato nel 2021 mentre dalla maggioranza arrivano altre suggestioni, condivise in campagna elettorale dalla presidente Giorgia Meloni: cambiare il testamento biologico e smettere di considerare trattamenti sanitari la nutrizione e l’idratazione artificiali. Un dibattito, quello parlamentare, appena iniziato in un percorso che non pare destinato ad essere rapido. In un perdurante vuoto normativo che rischia di farsi voragine nella vita delle persone.