Massimo Bottura,
l'arte in cucina
Massimo Bottura è un uomo del suo tempo. Il nostro. È contemporaneo per inclinazione e per ossessione. Oggi o domani. Ieri è un tempo sconosciuto se non serve a costruire qualcosa che serva adesso o poi. Guarda avanti: i piatti, le idee, i luoghi, l'arte, la musica, l'impresa. Sempre il "che si fa?" e mai il "che cosa ho fatto". Apre le porte di una casa in campagna che ha ristrutturato con sua moglie Lara e che ha trasformato in un altro pezzo di mondo dell'Osteria Francescana, il ristorante che ha portato ad avere tre stelle Michelin e a essere considerato nel 2016 e nel 2018 il miglior ristorante al mondo. Parla di sé e degli altri, del senso di essere uno chef in questa epoca, di come si vive veloci pur in un luogo che sembra lento. E di come tutto questo entri in ogni cosa che fa.
Chef Bottura, grazie di averci aperto le porte di questo luogo, di questa casa. E partirei proprio da qui: che cos'è questo luogo e cosa rappresenta per lei?
Questa è Casa Maria Luigia: era una vecchia azienda agricola abbandonata alla quale abbiamo portato la vita. Siamo entrati e abbiamo creato un luogo di accoglienza. L'ospitalità che è la chiave del turismo, la chiave del nostro lavoro: "Buongiorno". Il significato vero del buongiorno, ben arrivato... "Benvenuti" ha un significato profondissimo e abbiamo creato questo luogo proprio per cercare di comunicare al mondo il nuovo modo di fare ospitalità, di far sentire la gente a casa lontano da casa: home away from home. La gente viene, si trova in un luogo che rappresenta l'anima e le passioni mie e di mia moglie e quindi pieno di arte, per cui uno può arrivare a guardare il contemporaneo; è pieno di musica, per cui uno si chiude nella stanza della musica e ascolta quello che vuole ascoltare. Poi la natura, il cibo, tutta l'essenza di quello in cui credo: slow food e fast cars, ci sono anche i motori veloci, per arrivare ad acquistare il parmigiano reggiano nel miglior caseificio sulle colline modenesi, ma anche salire su nell'acetaia e recuperare un aceto balsamico di cinquant'anni. È proprio l'essenza della nostra vita.
Quanto contano per lei i luoghi?
I luoghi rappresentano il viaggio, rappresentano motivo di conoscenza: io viaggio nel mondo con gli occhi e le orecchie aperte. Questa è una cosa fondamentale per me, perché sviluppare conoscenza significa crescere, significa evolvere. Io penso che fare contemporaneità, essere contemporanei, significa conoscere tutto e poi dimenticarsi di tutto. Ecco, nel momento in cui tu dimentichi tutto, sei in una zona nella quale crei qualcosa di nuovo e lì è il momento in cui sei contemporaneo. Quindi cultura, conoscenza, coscienza, senso di responsabilità. Entro nella porta dell'inaspettato per rendere visibile l'invisibile attraverso la mia conoscenza. Cultura è quello che facciamo ogni giorno nelle nostre botteghe. Sono piccole botteghe e piccoli ristoranti... Tu sai che i nostri ristoranti non sono delle mega-aziende, sono piccole botteghe rinascimentali dentro le quali sviluppiamo la cultura e diventiamo gli ambasciatori della nostra agricoltura. Abbiamo creato una nuova forma di turismo, il turismo enogastronomico che tutto il mondo ci invidia. E facciamo formazione. Oggi nel 2020 il cuoco è più della somma delle sue ricette: ha il dovere di uscire dalla cucina e diventare portavoce di tutti, degli agricoltori, dei contadini, dei caseari, dei pescatori e le persone di tutta la filiera, che veramente ci permettono di trasmettere emozioni attraverso il nostro cibo, mettendoci a disposizione le migliori materie prime del mondo. Perché l'Italia è questo.
"La cucina è un gesto d'amore"
Parlando della casa e guardando questo luogo, mi viene in mente anche una possibile connessione di cui volevo parlare con lei. È quella tra la cucina e l'architettura…
Il link è la bellezza, è la qualità. La qualità che non è solo la qualità dell'ingrediente, ma la qualità delle idee, quindi sviluppare la qualità delle idee... che sia un architetto, un designer, un artista, un cuoco. Ecco, questo è per me un po' il filo conduttore di tutto questo.
Arrivando qui mi ha colpito moltissimo il prospetto, partendo da quest'opera…
La prospettiva di tutto... Guarda da qua. Tu sei qua, e vedi Mimmo Paladino là dietro sospeso sulla fontana e l'acqua. L'acqua è la vita, e infatti c'hai la natura e l'umanità... cioè la rappresentazione della natura e dell'umanità, lo scudo della natura con gli uccellini dentro che raccontano il bisogno dell'umanità della natura, e la natura che deve essere difesa dall'umanità. È uno scambio. E qua davanti c'hai Sandro Chia. Quindi Paladino e Chia, probabilmente i più grandi artisti della transavanguardia che ci raccontano due storie diverse. Lui (indica l'opera di Chia, ndr) è il Babbo, la tradizione. Ehi, guarda... sta guardando l'ingresso. Sta aspettando tutti: "Io vi sto guardando. Attenzione, perché qua siamo a Modena, è la terra della tradizione".
Entriamo… Questo è come se fosse un piccolo mondo di Massimo Bottura, ricostruito in una sola stanza?
Esattamente così perché l'arte è "ti faccio vedere questo, ti faccio vedere quello". Ogni opera ha un suo perché ed è fondamentale perché ti insegna qualcosa, perché comunica qualcosa di importante, un messaggio molto profondo. Questa è un'opera di Ai Weiwei, che io uso spesso quando faccio delle conferenze per far capire prima di tutto il gioco del bambino, perché essere bambini è fondamentale… Allora qua cos'è? Lui gioca come un bambino con il lego, ma racconta una cosa meravigliosa. C'ha un vaso di duemila anni che fa cadere a terra e lo rompe, e dice: "Non sto prendendo la distanza dal mio passato, ma il passato è un punto di partenza. Questi cocci sono mia nonna, la nonna della mia nonna, è il mio passato. So che parto da qua, ma per costruire il futuro devo avere un pensiero contemporaneo".
Ma questo come si collega al mondo della gastronomia e della cucina?
Quando ero un bambino, io litigavo con i miei fratelli per la parte croccante della lasagna. Quella era la cosa migliore di una grande teglia di lasagne, tutto il resto era per gli adulti che volevano riempirsi. Ma i bambini si riempiono di amore, della parte migliore, la parte più emozionale, la parte croccante della lasagna, e da lì nasce questa idea della parte croccante della lasagna.
E la parte croccante è il vaso che si rompe?
Sì, la parte croccante è il vaso che si rompe. Questa è la lasagna, io la lasagna l'ho rotta, l'ho riguardata in una chiave critica e non nostalgica. Ho capito che la nostalgia è la gran bella fetta di lasagna, e ho preso solo questo pezzo che è la parte croccante, e lo vado a ricostruire. È stato un momento straordinario per me, perché il New York Times ci ha dato la copertina, mi ha eletto uno dei Greats, come Michelle Obama, Lady Gaga, Eggleston. E mi ha detto: "Facci qualcosa che ti racconti". E abbiamo fatto questo video dove raccontiamo solo in suoni la parte croccante della lasagna.
"Vite, l'arte del possibile"
L'intervista allo chef Massimo Bottura di Giuseppe De Bellis
Le voglio far fare un viaggio nel tempo. Lei ha vissuto a New York, ed è stato un momento fondamentale anche per ragioni familiari. Poteva fare probabilmente tante altre cose, tante altre esperienze. Perché è tornato a Modena?
Perché la porta dell'inaspettato era Modena in quel momento. Mio fratello mi aveva trovato questo localino in centro storico. Avevo scelto il mondo dell'enogastronomia. Potevo scegliere il mondo della musica, il mondo dell'arte o magari avrei lavorato nell'ambito del petrolio come tutta la mia famiglia. Ma c'era la porta dell'enogastronomia, era aperta, e io ci sono entrato. E ho trovato questo, ho trovato Lidia Cristoni che mi ha insegnato a sedermi a tavola con tutta la squadra e a condividere un pasto insieme come in famiglia. Ho trovato Alain Ducasse o Georges Cogny, che mi hanno convinto che il mio palato che era uno dei più importanti che ci fossero al mondo, e che quindi dovevo essere sicuro e seguire e credere in me stesso. E allora c'è stato il momento in cui ero New York, ho conosciuto mia moglie... e mi hanno chiamato, ho sentito questo richiamo della provincia. Non so, forse era la provincia che è dentro il mio DNA. Essere e vivere la provincia nel modo giusto è un plus incredibile perché sei sempre pronto con la valigia per ripartire, quindi non sei perso nella provincia, ma la provincia ti aiuta anche a rimanere con i piedi per terra. E quindi probabilmente è stato questo, sempre questa voglia di riuscire a ricreare in un aspettato qualcosa di straordinario. Modena è un luogo particolare: se tu ci pensi, in un piccolo spazio, una piccola città, trovi di tutto: il comparto delle ceramiche, le auto più veloci del mondo e più belle del mondo, l'enogastronomia esplosiva e i micro-dettagli della chirurgia. E ti chiedi: "Perché è tutto qua?". Perché è una zona nella quale la gente sa come vivere, ha sempre questo senso di competitività probabilmente dentro, ma anche questo senso di stare insieme, il senso della collettività. Penso al consorzio dell'aceto balsamico e parmigiano reggiano: sono lì, sono un gruppo di persone che credevano nell'eccellenza, che competono tra loro ma tutti credono nello stesso sogno. Nella mia testa, però, io avevo bisogno di avere una visione globale, e mia moglie è quella che mi ha dato tutto questo. Lei è newyorchese, laureata in storia dell'arte, e ha reso per me visibile l'invisibile. Mi faceva guardare nei musei le grandi tele degli artisti contemporanei e diceva: "Non fermarti a quello che l'artista ti sta mostrando, vai in profondità e studia la storia, racconta, interpreta il titolo del quadro o dettagli del quadro e da lì devi sapere che la grande arte poggia sempre sul passato. È da lì che si crea futuro". Così è nato tutto quello che è nato.
Quanto conta oggi per lei, nel suo lavoro, il rapporto con sua moglie?
È fondamentale, perché noi condividiamo tutto. Noi viviamo insieme, siamo anche veri e propri partner. Lei ha le cose in cui crede da sempre, quindi scrive in modo splendido e ha sempre il titolo che ti permette di capire immediatamente ciò che scrive, la capacità di sintesi, la visione della storia miscelata con la velocità di pensiero, con i tempi lunghi della provincia.
"Mia moglie ha reso
per me visibile l'invisibile"
Parliamo di sua mamma... Ha detto che…
Non mi porti indietro nella nostalgia, lo sai che io… Quando parli di mia madre è sempre… uh… ancora adesso mi viene da fare il numero di telefono perché ho bisogno di un consiglio.
Non la porto nella nostalgia anche perché so che è anti-nostalgico…
La nostalgia è importante, ma se ti perdi nella nostalgia non vedi il futuro. Per me la cosa importante è il futuro. In tutto quello che faccio io guardo il passato, lo guardo in chiave critica, mai nostalgica, per prendere il meglio del passato e portarlo nel futuro... Parto da lì.
La cucina appartiene più al passato o più al futuro?
Al futuro, è logico. È sempre futuro. Quando tu parli di mia madre… Mia madre è sempre stata una che ha cercato la novità e mi ha trasmesso sempre questa ossessione per la qualità. Ho fatto un'intervista con immagini, e quando mi hanno chiesto del talento, io l'ho espresso con una foto di mia madre. Perché lei ha avuto il talento di capire le persone che aveva di fronte, ha avuto la forza di convincermi che la mia energia andava canalizzata in qualcosa di ossessivo. Non ero contento, stavo studiando legge, non mi impegnavo come lei sapeva che io mi sarei potuto impegnare. E quindi cosa è successo? Mi ha convinto a seguire le mie passioni. In quel momento mio fratello ha trovato un'opportunità in questo piccolo ristorantino in campagna, in mezzo a tre case, in un posto che io non sapevo neanche esistesse. E io mi ci sono buttato a capofitto, perché il talento di mia madre è stato quello di convincermi che le mie energie andavano lì. E io l'ho fatto. Per quello ha avuto un ruolo veramente importante nella mia vita.
"Il cuoco, nel 2020, è più della somma delle sue ricette: ha il dovere di uscire dalla cucina e diventare portavoce degli agricoltori, dei contadini"
Ha parlato degli esordi. Si ricorda la prima recensione che ha avuto? La prima positiva e anche la prima negativa...
Veramente mi fai ripercorrere dei momenti incredibili. Sì, mi ricordo un critico locale. Praticamente facevo quasi gli stessi piatti classici di adesso, quindi le stagionature del parmigiano reggiano, le consistenze, le temperature, il croccantino di foie gras con il cuore di aceto balsamico tradizionale. Lui scrisse sul giornale il giorno dopo, su un giornale locale: "Mi raccomando, non merita. Questo ristorante non merita di essere visitato. Si spende neanche poco e si mangia... niente". E tu dici: "Ma abbiamo visto le stesse cose?". Ero talmente sicuro di quello che stavo facendo che l'ho letto e me lo sono dimenticato. Ho portato sempre una ferita. Dentro una ferita nel cuore ce l'ho sempre, però ho detto: "Sono sicuro che sto facendo le cose giuste". Perché come Lara mi spiegava che dietro un'immagine c'era tutto un pensiero filosofico che sosteneva l'immagine stessa, le basi dell'immagine stessa, io sapevo che stavo parlando dello scorrere lento del tempo in Emilia-Romagna, stavo parlando delle cinque stagionature del parmigiano reggiano. Pensa: 24 mesi, 30 mesi, 40 mesi, cioè la cantilena emiliana, oppure aspettare cinquant'anni prima che un aceto avesse la riduzione giusta. Ho sempre creduto in quello che facevo. Poi è arrivata la prima recensione veramente positiva che ha cambiato la storia dell'Osteria Francescana. Era circa aprile del 2001, ci fu un incidente stradale, un critico gastronomico molto importante - Enzo Vizzari - venne a mangiare prenotando a nome Vizzu. Ce lo ritrovammo a tavola: mangiò e sul giornale del venerdì chiese scusa pubblicamente per non essere venuto prima all'Osteria Francescana. Alla fine di novembre, quando c'è l’uscita di tutte le guide gastronomiche, ricevemmo la prima stella Michelin, fu performance dell'anno per l'Espresso e giovane dell'anno per il Gambero Rosso. Quindi cambiò tutto.
Per lei quanto conta il giudizio degli altri?
Dipende chi è. Mi confronto sempre con le persone, per me è molto importante: è per quello che io esco sempre a tavola, ogni volta che sono in Osteria Francescana, o che sono a Modena, ed esco a parlare con i tavoli così come sono qui a Maria Luigia, così come vado in Franceschetta. Perché per me è importante confrontarmi con le persone e poi filtrare tutto ciò che raccolgo, e tenere questo senso di confronto per capire anche le emozioni che sto trasmettendo. Non c'è stato momento più bello di quando abbiamo riaperto. Sai, dopo tre mesi incredibili passati in casa, tempo prezioso... Abbiamo creato qualcosa di incredibile io mia figlia e un iPhone. Abbiamo vinto un Webby Award, cose folli che neanche sognandole uno le può immaginare. Poi però era tutto un alto e basso, un saliscendi come le montagne russe e non sapevi cosa aspettarti. C'era l'inaspettato lì davanti: arriveranno o non arriveranno? Primo giorno di apertura: abbiamo aperto, c'era la fila fuori della gente che ci aspettava tutti distanziati, tutti che aspettavano in modo rigoroso. Entrano e dopo un'ora di lavoro ci eravamo dimenticati di tutto, di tutto il disastro economico, di tutto quello che c'era costato, dei mesi passati a soffrire. Ci eravamo dimenticati tutto perché ci aveva dato questo rapporto con le persone.
Ho letto un'intervista in cui ha detto che non ha scelto lei la cucina, ma è la cucina che ha scelto lei...
Sì, è vero perché in quel momento ero perso. East or West, what's the best? I'm open to persuasion. Quindi ero aperto a essere convinto da un progetto interessante. La cucina era uno dei miei interessi più profondi, tant'è che ancora adesso dedico dei piatti a Peppino Cantarelli... Grande ristorante a Samboseto, due stelle Michelin negli anni '60-'70. Il mio ottavo compleanno l'ho passato con tutta la famiglia da Cantarelli. Son stati anche quei primi momenti nei quali passavo momenti meravigliosi in cucina con la mia famiglia a fare i tortellini, a piegarli e mangiarli, a recuperare gli scarti, a cuocere sopra la cucina a induzione gli scarti della pasta tirata a mano per poi andare a pescare il ragù e mangiare una tagliatella croccante al ragù fatta all'istante con gli scarti delle tagliatelle. Probabilmente tutto questo è stato parte di questa mia crescita, e nel momento in cui mi sono ritrovato a dover scegliere di fronte a un'opportunità, io l'ho colta quell'opportunità. Ho detto: "Vedrete!". Mi ricorderò sempre quando lo dissi a mio padre. Entro in azienda e dico: "Papà, io non voglio fare l’avvocato, farò il cuoco". Sai era il 1985, e lui mi dice: "Cosa?". E io: "Farò il cuoco". E lui: "No, non puoi perché adesso devi studiare, devi fare l'avvocato, sai perché può essere… la famiglia… Tuo fratello grande fa l'ingegnere, l'altro il commercialista, tu devi fare l'avvocato". E io gli ho detto: "Papà, farò il cuoco e vedrai un giorno ti porterò le tre stelle Michelin in Emilia-Romagna". E sono arrivate.
Partendo da qui, quindi dal successo, dalle tre stelle Michelin, e da tutti gli altri successi che ha avuto (due volte miglior ristorante del mondo, quindi miglior chef del mondo)... Dove trova questa energia che si percepisce continuamente sentendola parlare?
Secondo me bisogna vivere la vita come un sogno. Ci vuole tanta cultura per potere leggere molto, immaginare scenari, guardare sempre l'inaspettato come un'opportunità. Vivendo la vita come un sogno tu non ti perdi mai nella quotidianità.
Abbiamo parlato di luoghi, abbiamo parlato di storia. Le chiedo: la cucina è più figlia della storia o della geografia?
Di tutte e due. Prima di "Sgt. Pepper", avevo un menù che si chiamava "Viaggio lungo il Po", ma al contrario, dal mare fino al Monviso. Volevo raccontare la poesia della nebbia, dei tempi lunghi, del freddo, del caldo, di un luogo pieno di umidità, dove però nasceva il culatello, il prosciutto, il parmigiano, l'aceto balsamico. Noi siamo questi, siamo l'Italia. La storia è fondamentale perché ci ha distillato il meglio del passato portandolo nel futuro. Attorno a un tavolo si creano le famiglie, si smussano gli attriti, si sogna, si proietta il futuro, ed è per questo che anche qui a Maria Luigia abbiamo creato questo progetto, la rivoluzione dell'alta cucina. "Sedetevi, ben arrivati, scegliete il posto"... Siamo attorno a un tavolo, si comincia a parlare, si lascia da parte il cellulare, si comincia a comunicare uno con l'altro. Una rivoluzione.
Prima ha fatto cenno al talento in un gioco di squadra. La cucina, secondo lei, è più lavoro o più talento?
Qui devo citare Picasso. Scomodo Picasso? È duro lavoro per il 90% e per il 10% talento. È logico che il talento ci deve essere, ci deve essere visione... Ma il duro lavoro non perdendosi nella quotidianità, il duro lavoro quotidiano è ciò che ti permette di crescere. Penso sempre a quello che mi dice il mio direttore di sala da vent'anni, Giuseppe Palmieri: "Tu viaggia, portaci a casa le idee e l'energia, e io sto qua, tengo il volante a dritta e stai sicuro che non andiamo fuori strada".
Le voglio chiedere di un suo amico, Marco Bizzarri, l'amministratore delegato di Gucci. So che siete molto amici, avete fatto le scuole insieme. Secondo lei, aver avuto un amico così... due compagni di classe che fanno un percorso e arrivano al top delle loro carriere... è stato un challenge continuo? Vi siete sfidati a vicenda? Vi siete aiutati? Che cosa è successo?
Non lo so, è stata una coincidenza incredibile perché il primo giorno di scuola, nel 1975, ci siamo ritrovati nello stesso banco, nell'ultimo banco là in fondo. Si vede che nessuno voleva condividere il banco con noi... Ci siamo trovati noi due lì e non ci siamo mai lasciati. Avevamo sempre avuto un rispetto enorme l'uno per l'altro. Mi ricordo che ci giocavamo le merende, durante la ricreazione, a tressette e poi chi perdeva pagava la merenda all'altro. Quando il pomeriggio c'era la scuola, lui chiamava mia madre direttamente e diceva: "Luisa rimango a pranzo da voi". E lei: "Marco che cosa ti faccio?". E lui: "Se ci fossero i tortellini… però vanno bene anche i passatelli". Il rapporto era questo: quando tu cresci così sei completamente aperto nell'anima, e puoi entrarvi dentro in ogni momento.
Abbiamo sviluppato ognuno la sua carriera. Tutti e due siamo ossessionati dalla qualità, e quindi abbiamo creato e portato avanti parallelamente queste due carriere. Ci siamo ritrovati ad un certo momento, quando lui era in Bottega Veneta, in cui lui mi chiedeva: "Dai, ma perché non cominciamo a fare qualcosa insieme?". E abbiamo cominciato a fare delle cene folli sui tetti di Milano nello spazio che aveva aperto Bottega. Ricordo che ero all'aeroporto di Istanbul, lui mi chiamò e mi disse: "Cosa ne dici se vado da Gucci?". E io: "Gucci? Gucci nooo". Sai, era il periodo in cui Gucci era in caduta libera, e lui mi disse: "Proprio per questo che vorrei andare, per un'altra sfida con me stesso e vedere se riesco a fare qualcosa di importante". E io gli ho detto: "Vabbè, ma io ti seguo e poi vediamo cosa sarà. Se tu pensi che sia giusto, io credo che tu lo debba fare". E lui aveva già deciso.
Dopo questi racconti le chiedo un aneddoto, almeno uno, della vostra storia di ragazzi, o anche recente.
Lasciamo perdere l'aneddoto sulla professoressa di matematica che ci guardava e ci diceva che non avremmo mai combinato niente nella vita. La cosa che mi ha stupito di più a posteriori, perché nel momento l'ho vissuta proprio appieno, è stata una cena al buio con Alessandro Michele (direttore creativo di Gucci, ndr) e Marco. Marco ci ha invitati tutti e due senza dire che ci sarebbe stato l'altro. Ci troviamo tutti e tre a tavola, e lui comincia a dire: "Cosa ne pensate se facessimo un'osteria Gucci? Se chiudessimo tutti i bar e cominciassimo a fare una cosa insieme, noi tre?". Le cose succedono…
Quindi si torna sempre lì, alla cucina e al sogno…
Enzo Ferrari diceva: "Se lo puoi sognare, lo puoi fare". Basta solo che tu creda nei tuoi sogni. È tutto quello che ci stiamo dicendo, tutto quello che ci siamo detti fino ad adesso. Torna tutto. C'è un filo che connette una cosa all'altra. Nasce tutto da lì: cultura, conoscenza, coscienza, senso di responsabilità.