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Murgia, quando la morte si prende la scena: è lei la grande maestra

Cronaca

Domenico Barrilà

La morte non è un atto politico, semmai qualcosa di tragico e definitivo. Per quanto tu faccia rumore questo è e questo rimane, soprattutto non è lei a decidere quanto profonda sarà l’impronta che lasceremo o a stabilire chi siamo noi. La morte può fare solo da ente certificatore, mettendo un sugello di coerenza a tutto il percorso precedente oppure sconfessarlo

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La morte di un personaggio famoso provoca sempre sismi di magnitudo variabile, cosa che non accade quando chi ci lascia non è registrato alla borsa valori del successo. Anche la morte opera -colpa nostra- all’interno del “mercato”, contesto deformante, che stabilisce persino il numero di sorrisi e di pacche sulle spalle che rivolgeremo ai nostri simili, a seconda della posizione che ricoprono.

Proprio negli stessi minuti in cui da un’altra parte aveva luogo il funerale, affettuoso e meritato, di Michela Murgia ero in un hospice accanto a un caro amico, un male inesorabile non gli lascia tanta strada da fare. L’hospice è un luogo dove tutte le gerarchie svaniscono come sabbia che scivola via dalle dita, lasciandoci disarmati, ma qui non c’è clamore, il mio amico si sforza di essere sereno, giusto qualche singhiozzo trattenuto quando parla della moglie e del figlio, amorevoli compagni di una vita. Si avvia al congedo con lo stesso passo tenuto nei 65 anni precedenti. Questa è una prova decisiva, da qui vediamo la pasta delle persone, dalla coerenza nei loro atti, anche quelli estremi. Se differiscono l’una dall’altra, vita e morte, significa che ci è sfuggito qualcosa, ma con lui, uomo mite e integro, non si avverte nessuno sfasamento.

Uno spettacolo di umanità, malinconico, struggente ma prima ancora edificante.

Ci salutiamo, gli comunico che, se gli fa piacere, ci vediamo domani o dopo. Torno più per me che per lui, voglio rubargli il metodo. Bisogna cominciare a prepararsi.

La morte non è un atto politico, semmai qualcosa di tragico e definitivo. Per quanto tu faccia rumore questo è e questo rimane, soprattutto non è lei a decidere quanto profonda sarà l’impronta che lasceremo o a stabilire chi siamo noi. La morte può fare solo da ente certificatore, mettendo un suggello di coerenza a tutto il percorso precedente oppure sconfessarlo. Comunque, rimarrà sempre un incidente esistenziale di asprezza intollerabile, cui la vita cercherà di opporsi negando ogni parentela con essa, ma quando arriverà il momento vi si piegherà, docile, perché in fondo sa di appartenerle. Il momento in cui si prende atto di tale continuità, è catastrofico e sublime insieme, ma è proprio li che il nostro diritto di lasciare “messaggi” prende forma, si legittima. Credo che con Michela Murgia sia andata proprio così, lo stile con cui si è rapportata a una morte precoce, esalta le sue “guerre civili”, impregnandole di una forza morale supplementare.

Nella morte della scrittrice, persona martellante e ostinata per amore di verità e per angosce private mai superate, così come nei suoi ultimi atti, non c’è contraddizione con la vita precedente, nel crepuscolo e nella fine si rinforzano i contorni della sua battaglia più importante, forse l’unica, oltre alle sue opere letterarie, di cui rimarrà traccia, una battaglia legata a un principio che solo gli ottusi si ostinano a negare, ossia che l’amore e i legami che ne nascono non possono essere compressi in forme istituzionali valide per tutti. La vita e la morte di questa donna, che ci lascia precocemente, coincidono in modo perfetto. Lei sa di cosa parla, avendo attraversato l’infanzia sotto il tacco di un padre violento, sebbene genitore istituzionale, su cui un giorno ritorneremo, nessuno merita di essere ricordato con un giudizio, soprattutto quando il tratto indicato può essere figlio di precedenti non dissimili, subiti stavolta.

“Io sono una persona che nella vita non ha avuto un’educazione alla fiducia, tutt’altro; vengo da una di quelle famiglie che in termini eleganti si chiamano disfunzionali, in termini originali si chiamano incasinate e talvolta anche violente; quindi, mi sono abituata sin da piccolissima a non fidarmi nemmeno delle persone che mi accudivano, figuriamoci delle altre”. Sono parole della scrittrice, pronunciate al Festival dell’educazione di Bellinzona, che quell’anno era dedicato proprio alla fiducia. È il mese di settembre del 2019. “Ho reimparato la fiducia grazie a una serie di incontri che nella vita mi hanno fatto capire che qualche volta potevo chiudere gli occhi e dare la mano a qualcun altro e non per questo sarei finita in un burrone”. Stessa circostanza.

Da questo, e da molto altro, parte la giusta convinzione di questa donna che non sono i timbri e i certificati l’ossatura che tiene in pieni un legame, una famiglia. Per questo rimarcava, vivendolo concretamente, che la famiglia è una comunità di sentimenti e di affinità, non di carte bollate, e i suoi confini sono mobili perché la solidarietà e l’inclusività si possono moltiplicare all’infinito.

La realtà lo grida da troppo tempo. Ricevo con frequenza persone sposate da pochi anni, quando non da pochi mesi, che chiedono l’accompagnamento alla separazione, con tutti i traumi annessi. Un’epidemia devastante, ma ignorata per quieto vivere. L’istituzionalizzazione di un legame funziona come le strisce pedonali, che ti danno ragione ma non ti salvano la vita.

La scelta di legarsi e condividere spazi e sentimenti passa anche per altre strade, che riguardano la natura evolutiva degli esseri umani, la loro sete di progresso, che non può certo risparmiare i sentimenti e la loro necessità di esprimersi, secondo modi, tempi e sensibilità che mutano con le generazioni.

Sempre dello stesso amore si tratta. “Un sentimento che, verosimilmente, resterà accanto a noi e ci aiuterà a diventare più umani, comunque. Indifferente alle forme in cui decideremo di ospitarlo”, così scrivevo in un volume sui legami. Era già chiaro allora, dieci anni fa, che la famiglia non può più essere appoggiata solo su norme pensate per luoghi ed esseri alieni, perché così non regge, e si vede.

Proprio questo è il senso del lavoro, per sé e per conto terzi, svolto dalla scrittrice lungo il corso degli anni, fino agli ultimi giorni. Dunque, come il mio amico all’hospice, è stata coerente da cima a fondo, in vita e in morte.

In vita la parte costruttiva, in morte quella conservativa.

Un’altra donna, abbandonata dal padre quando era piccola, occupa oggi un importante ruolo istituzionale in Italia e nega tale diritto, cercando di sigillarlo nel sarcofago di una finzione giuridica, soffocandolo definitivamente.

Alla sofferenza si può reagire aprendo oppure chiudendo il recinto della fiducia, ma se diventi una figura istituzionale la tua esperienza non può essere generalizzata, soprattutto perché nel secondo caso ti assumi l’immensa responsabilità di restringere il mondo di persone libere, dei tuoi concittadini a cui la propria vita appartiene di diritto e non può essere incorporata nella tua sceneggiatura soggettiva, figlia di eventi biografici sfortunati, ma pur sempre personali.

Meglio ascoltare chi vive e muore comprando territori liberi per regalarli ai propri simili. Il mondo non necessita di secondini, come ai tempi di Silvio Pellico, ma di interpreti della sublime mutevolezza della nostra specie.

 

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/