Django, la recensione del terzo e quarto episodio della serie western Sky Original

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Alessio  Accardo

Alessio Accardo

Venerdì 24 febbraio, torna la serie originale Sky e CANAL+, tra echi del cinema del passato e temi sociali del presente. Con Matthias Schoenaerts e Noomi Rapace, Manuel Agnelli e Franco Nero. Dirige Francesca Comencini.

Si è già spiegato la scorsa settimana come Django la serie sia stato definito dalla sua regista nonché direttrice artistica, Francesca Comencini, una sorta di epicedio del patriarcato, raccontato cogli stilemi del genere cinematografico che più di ogni altro ha contribuito a edificarne la mitologia più spietata. Un cinema fatto di uomini sempre duri e spesso puri che, a volte per soldi altre per ragioni più nobili, hanno ucciso e si sono fatti uccidere. Gli episodi 3 e 4 chiariscono ancor meglio il concetto, tanto che si potrebbe tranquillamente rimuovere il contesto storico\geografico e dire francamente che lo show targato Sky Studios è un altro tassello della narrazione contemporanea sul politicamente corretto; mostrando al pubblico come sia stata lastricata di discriminazioni di ogni tipo la conquista del West (e – s’intende - non soltanto quella).

Infatti, a partire dall’impiccagione di un afroamericano, che rimanda agli “strange fruit” cantati da Billie Holiday; in queste puntate successive balza ancora più prepotentemente agli occhi la politicità di questa serie che, come ripete a ogni piè sospinto la sua direttrice artistica, è bensì ambientata ai tempi del far west, ma affronta drammi decisamente contemporanei. Non vi si narrano solo, come sarebbe lecito attendersi, le violenze che allora l’uomo bianco perpetrava ai danni delle razze considerate inferiori, ovvero i neri e i nativi; ma si evocano anche le discriminazioni di genere, grazie a un coup de theatre che non è possibile rivelare fino in fondo e che riguarda un tema ormai imperante come la fluidità di gender. Anche se non si tratta di una novità assoluta - già nel lontano 2005 Ang Lee aveva vinto tre Oscar su otto candidature raccontando l’amore omosessuale tra Jake Gyllenhaal e il compianto Heath Ledger ne I segreti di Brokeback Mountain, che era appunto un western – va detto che lo scarto dei discorsi sulle emancipazioni sociali ha fatto segnare ultimamente un punto di non ritorno.

Una serie figlia dei tempi, dunque, se è vero che le istanze dell’inclusion e dell’orgoglio omosessuale vengono ormai disseminate quasi sistematicamente in moltissimi racconti per immagini. Per restare alle serie-tv, vengono in mente Tutto chiede salvezza di Francesco Bruni o la più recente La legge di Lidia Poët di Matteo Rovere e Letizia Lamartire, due opere di largo pubblico e buona qualità, in cui la diversità di genere si fa largo in maniera non peregrina. Non solo, anche dell’evento televisivo più eclatante della stagione, l’ultima edizione del Festival di Sanremo, restano in mente soprattutto le performance extra-canore di Rosa Chemical e la prise de pouvoir delle molte signore, da Chiara Ferragni a Paola Egonu, che nell’immaginario collettivo hanno marcato di senso il palco dell’Ariston molto più dei due conduttori maschi. Il motivo è presto detto: si colgono oggi i frutti delle battaglie combattute nei decenni scorsi dalle donne o dal mondo LGBTQ+, e quella struttura politica precipita sic et simpliciter in sovrastruttura narrativa.

Una cosa è certa, se Carlo Verdone si trovasse di nuovo a dirigere ora una delle sue pellicole più riuscite come Borotalco, sarebbe probabilmente costretto a rinunciare a una delle battute più esilaranti, quella che - come ciascuno ricorderà - riguardava John Wayne. Oggi, appena 40 anni dopo, sarebbe forse censurata come una bestemmia.

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E però il western conta se è vero che questo “genere” – forse, insieme al musical, il più genuinamente hollywoodiano - sta conoscendo oggi una nuova, ennesima, fase di reviviscenza, soprattutto seriale; principalmente grazie a Yellowstone (di cui dal 1° marzo andrà in onda qui su Sky la quinta stagione), e ai due prequel on air in questi giorni, ancora firmati dal geniale Taylor Sheridan: 1923 con Harrison Ford e Helen Mirren e 1883 con Sam Elliott e un cameo di Tom Hanks. Conta il western e tutto il portato di codici semantici che abbiamo ereditato, più o meno consapevolmente, dalla storia dello studio-system.

Lo vediamo subito, sin dalla prima sequenza del terzo episodio in cui lo schermo è invaso da poderose folate di vento che nemmeno nell’intro di C’era una volta il west di Sergio Leone, e di cui è punteggiato il cinema del suo modello: il John Ford di Sentieri Selvaggi. Così come non manca lo stilema più tipico del genere: le sparatorie cruente e acrobatiche. Il quarto episodio si apre invece con una scena di trivellazione del territorio che ricorda Il petroliere di Paul Thomas Anderson, ennesima parabola sull’avidità dell’”homo americanus” narrata negli anni dal cinema d’oltreoceano, da Greed (Rapacità) di Eric Von Stroheim a Wall Street e relativo sequel di Oliver Stone.

La vera cifra stilistica di questi episodi è però rappresentata dal ricorso ripetuto allo strumento del flashback, grazie al quale si svela il passato dei protagonisti, riandando a dove tutto ebbe inizio. Si capisce insomma che, se Django è giunto a New Babylon, è pervia di una tabacchiera che dovrebbe condurlo all’identità dell’uomo che ha sterminato la sua famiglia; si scopre che sua figlia Sarah è stata l’unica sopravvissuta di una mattanza che ha decimato la sua famiglia, dopo che lui è partito soldato. Proprio così: Julian, non ancora Django, viene cooptato dall’esercito confederato, nei giorni in cui il generale Grant sta scagliando una delle sue offensive (siamo dunque negli anni ’60 del XIX secolo). Il dato curioso è che nel film originale di Sergio Corbucci il protagonista era stato irregimentato sì ma nelle fila degli unionisti… Irrompe così un altro topos dell’epopea western, la guerra di secessione, molto caro alla sua versione nostrana (di cui Django è dopotutto un erede): uno degli spaghetti-western più riusciti di Sergio Leone, Il buono, il brutto e il cattivo, si svolge come si ricorderà proprio sullo sfondo di quello scenario storico. 

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Insomma, se nei primi due episodi gli autori hanno stabilito le coordinate narrative dello show, svolgendo il canonico “set up”; qui si dedicano ad approfondire il tratteggio dei personaggi, e a spiegare le cause del loro arco di trasformazione; e introducono l’apparizione di interessanti coprotagonisti. Nel terzo episodio facciamo ad esempio la conoscenza del personaggio interpretato da Manuel Agnelli, Oscar, il proprietario di una compagna di estrazione a Nagadoches che a suo dire frutterà milioni. Viene peraltro qui anche fornita una plausibile spiegazione della sua folta capigliatura scenica (simile a quella che gli abbiamo sempre conosciuto, da quando era “soltanto” il leader degli Afterhours): è stato tenuto a balia da una donna Comanche. Ma è nel quarto episodio che arriva il bollino blu, la certificazione che si tratta di un Django “doc”: a 57 anni di distanza dal cult-movie che gli diede la fama, entra in campo Franco Nero in persona, ovviamente imbracciando un winchester; anche se, ad onta dello spolverino d’ordinanza e del cappellone da cowboy, qui interpreta un reverendo con un passato da medico.

Ma forse il personaggio che si staglia maggiormente sui fondali rumeni di Paki Meduri è “La Signora”, come viene pudicamente definita l’Elizabeth interpretata da Noomi Rapace (la quale ha dichiarato che questo è il ruolo più bello della sua carriera). È lei a rendersi protagonista degli episodi più brutali, è lei il vero spietatissimo villain della serie. Una fanatica religiosa cresciuta a pane e Bibbia, con una visione del mondo pudibonda e sessuofobica; accecata da una rabbia vindice poiché suo figlio è stato contagiato di sifilide, e così accecato, dal marito libertino.

Si scopre infine che “La Signora” e John Ellis hanno un passato in comune, e che il motivo della loro asperrima rivalità non deriva soltanto da ragioni etiche ma anche da questioni venali. Si contendono una terra resa florida e remunerativa dalla scoperta di un giacimento petrolifero. Del resto, il padre dello spaghetti-western lo ha detto dal primo vagito del filone che nel caro, vecchio, west si è sempre combattuto per un pugno di dollari…

To be continued…

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