Lenny degli Alan Parson immenso, Young Signorino basico (la sua crew pessima)

Musica

Fabrizio Basso

Lenny Zakatek al Bravo Cafè di Bologna
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Serata strana al Bravo Cafè di Bologna. Apre, con una superband, Lenny Zakatek degli Alan Parson Project, e poi arriva Young Signorino con rime old style e una folta crew irrispettosa del pubblico. Il racconto della serata

(@BassoFabrizio
Inviato a Bologna)

La serata è di quelle che non ti aspetti. Parto da Milano per vedere Young Signorino e mi ritrovo con Lenny Zakatek che porta sul palco del Bravo Café la storia degli Alan Parson Project. Il volo è pazzesco. Va al di là del tempo, altro che ritorno al futuro, qui il ritorno è al sempre. Sulle pareti osservo le locandine di Tuck & Patty, Sananda Maitreya, Amp Fiddler e Le Sorelle Marinetti, per dare quel tocco di orgoglio italiano che poi un supponente Young Signorino vede vanificato per la cafonaggine del suo staff che se ne frega di chi è seduto al tavolo e decide di stare in piedi a fare muro impendendo a una parte del pubblico di assistere al concerto. A nulla servono le richieste, per altro, garbate di spostarsi. Il concetto di garbo non rientra nel loro vocabolario. Mi spiace questa situazione perché è coinvolto anche Giordano Sangiorgi del MEI, uno che della musica ha sempre fatto il suo fiore all’occhiello. E ha portato sue creature, in questa serata al Bravo Café. In effetti la vera bizzarria è stata mettere insieme la leggenda degli Alan Parson Project con la tregenda della crew di Young Signorino. Tornando per un attimo alla parte magica della serata, ecco chi ha suonato con Mister Lenny: Massimo Numa, Paolo Filippi, Sergio Pescara, Stefano Cisotto, Roberto Acciuffi e Dario Toma. Il momento più emotivamente forte? Quando hanno eseguito Step by Step.

Ed ecco apparire, poco dopo le 22, Young Signorino, seguito da una corte dei miracoli irrispettosa che si posiziona sulla destra del palco nascondendo l'esibizione a parecchia gente. Quindi per la parte di Young Signorino sarà una recensione un po’ a fantasia o a pane e vino, come dice lui nell’esordio. Siamo oltre i confini dell’auto-citazionismo col binomio, anche un po’ scontato, Young Signorino-Cocaina. In effetti il burro cacao che arriva dopo è quasi un palliativo. C’è un po’ di elettronica e c’è anche il rumore della sua claque. Una parte della sala può solo immaginare che c’è qualcuno sul palco e non è un playback. Chissà se lui sa che alla sua destra è stato eretto un atipico “mose” (sindaco di Venezia contatta il suo manager per consigli utili) che fa da onda d’urto alle onde sonore. D’altra parte chi riceve consensi non chiede di creare rumore alla fine di ogni canzone. Indossa pantaloni a quadretti bianchi e neri e una felpa abbondante con scritto Nirvana su un emoticon incazzato. Bei tempi quelli dei Nirvana, almeno il grunge è stato un movimento, Young Signorino muove solo i suoi accoliti. Diventa stucchevole il costante richiedere 'sto rumore: se non riesci a trasmettere energia gioca con le armi che hai ovvero una buona ritmica, una discreta parlantina e un rincorrersi delle parole quasi divertente. Chissà cosa c’è dietro agli occhiali neri. Forse c’è “mio padre è Satana yeh”. Siamo ancora alle rime demoniache che erano già stantie dieci anni fa. Ed è un peccato perché potrebbe uscire dall’inferno ed entrare nella contemporaneità. E invece si ferma, come lui dice, al quaquaraquà.

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