The Burnt Orange Heresy: la recensione del film

Spettacolo

Alessio Accardo

Credits: Jose Haro
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Sarà il thriller The Burnt Orange Heresy  diretto da Giuseppe Capotondi (La doppia ora) il film di chiusura, fuori concorso, della 76ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica LEGGI LA RECENSIONE

“Un racconto faustiano mascherato da giallo neo-noir”. È così che definisce il suo nuovo film Giuseppe Capotondi, che si intitola The burnt orange heresy e che ha l’arduo compito di concludere questa 76^ edizione della Mostra del cinema di Venezia, seppure nella categoria “Fuori concorso”.

A dieci anni esatti dal suo primo e unico lungometraggio, La doppia ora, che venne presentato proprio qui a Venezia con grandi consensi di critica che consentirono alla sua interprete femminile, Ksenija Rappoport, di aggiudicarsi la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile; Capotondi, dopo aver girato numerosi videoclip e qualche serie-tv, ritorna al lungo e ritorna a Venezia con un film dal titolo enigmatico, che il catalogo della Mostra ha tradotto così: L’eresia rosso aragosta.

Si tratta di un giallo psicologico ambientato nel mondo dell’arte e girato in Italia, soprattutto in una splendida e sinistra villa che si affaccia sul Lago di Como. È qui, nell’Italia dei nostri giorni, che incontriamo il protagonista del film: un critico d’arte ambiguo e ambizioso, che ha il volto dell’attore danese Claes Bang, assurto a fama mondiale per aver interpretato un ruolo molto simile a questo: il curatore del Museo di arte contemporanea di Stoccolma nel film The square che nel 2017 vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes e concorse per la vittoria di un Premio Oscar nella categoria miglior film straniero.

Un attore affascinante dal sapore antico, scelto dal regista italiano per le sue analogie somatiche con certi attori americani del passato, come Cary Grant, in modo da conferire al suo film un sapore d’antan che rimandasse in qualche modo al cinema di Alfred Hitchcock. Analoga anche la scelta della protagonista femminile, caduta, non a caso, sulla biondissima Elizabeth Debicki (già vista nel ruolo di Ayesha in Guardiani della Galassia Vol. 2), che nelle intenzioni del regista dovrebbe corrispondere a una sorta di moderna Kim Novak.

Si insiste sul cast perché è proprio tra gli attori che si annida, probabilmente, uno degli aspetti più interessanti di The burnt orange heresy, se è vero come è vero che nel ruolo di un collezionista d’arte troviamo la più grande rock-star vivente, il cantante dei Rolling Stones, Mick Jagger.

La trama del film sviluppa la storia già raccontata dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense, Charles Willeford, che narra le vicende di critico d’arte che intreccia una relazione con una giovane turista americana. I due amanti si recheranno nella villa del collezionista d’arte interpretato da Jagger, il quale propone loro di appropriarsi dell’un’opera d’arte di un artista sfuggente e misterioso (definito come un J.D. Salinger del mondo dell’arte), anche egli ospite della tenuta (e che – per tornare a insistere sulla grandissima qualità del cast - ha il volto di Donald Sutherland).

Da qui si sviluppa una teoria di segreti e bugie, di ambizioni e menzogne, di inganni e maschere che hanno nel mondo dell’arte una sorta di loro “correlativo oggettivo”. Che cosa c’è di vero in un dipinto? Quanto siamo sicuri di poter giurare sulla sua autenticità? Chi ci assicura che non si tratti di un capolavoro assoluto oppure di una patacca, come è spesso accaduto nella realtà? E quanto c’entra tutto questo con le nostre vite, in un periodo in cui sembrano imperare gli inganni della post-verità? Questo sembra chiedersi il regista milanese, rileggendo il romanzo di Willeford, da cui sviluppa un thriller noir, in cui non mancano colpi di scena, scene erotiche e azioni violente.

Il gioco tutto sommato funziona, anche se, nella prima parte del film - affidata a lunghi dialoghi molto sagaci pronunciati da personaggi sempre un po’ troppo perspicaci - la storia sembra essere appesantita da un impianto eccessivamente letterario, nel senso peggiore del termine.

C’è però un riscatto nel finale, quando l’azione prende il sopravvento sulle parole, conducendo il plot verso un finale più convincente, sebbene non privo di alcuni aspetti vagamente inverosimili.

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