Riget Exodus, la recensione della serie tv di Lars Von Trier fuori concorso a Venezia 79

Cinema

Paolo Nizza

Il regno è tornato. La terza e ultima serie tv diretta da Lars Von Trier è stata presentata fuori concorso alla 79.ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia

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Certi Regni fanno giri immensi e poi ritornano. Come  Riget- The Kingdom. Correva l’anno 1994, quando il regista Lars Von Trier, abbacinato dalla visione di Twin Peaks, decise di girare una miniserie ambientata in un ospedale costruito su una palude dove i tintori venivano a inumidire i grandi teli che poi stendevano per la sbiancatura. Nel 1997 il cineasta danese ha firmato una seconda stagione. E ora alla 79.m Mostra del cinema di Venezia è arrivato il finale di una fiction di culto. A quasi 30 anni di distanza molto è cambiato. Von Trier ha impiegato tre anni e mezzo per terminare queste cinque puntate conclusive. A fine  luglio, il regista ha scoperto di avere contratto il Morbo di Parkinson che gli ha impedito di essere presente al Lido. Ma l’arte è più forte della realtà. E prima della proiezione Von Trier ha mandato un videomessaggio in cui ringrazia i maestri della cinematografia italiana da Fellini a Pasolini, da Antonioni a Visconti, da Leone a Morricone, da Ferreri alla Cavani.  

Lars Von Trier, qualsiasi cosa gli accada risulterà sempre un briccone divino, un sabotatore delle convenzioni, un autore che se ne infischia di marketing e algoritmi. Lo comprendi da come inizia il primo episodio di The Kingdom Exodus. In un crescendo rossiniano di autoironia, Lars di fa prendere in giro, Qualcuno gli dà dell’idiota, altri dicono che la serie è una stupidaggine criticano il finale della seconda stagione della serie. Perché Exodus è una vertiginosa “Messa in abisso”. Un sogno nel sogno. Un incubo nell’incubo. Qual e la realtà? Che cosa davvero succede tra le corsie del Regno per la prima volta non è più il migliore di Copenaghen C’è del marcio in Danimarca, ma pure in Svezia non scherzano. Almeno a giudicare da comportamento del medico Helmer Junior (Mikael Persbrandt), a cui manca l’Ikea, la Volvo e soprattutto il padre, defunto nella seconda stagione. Certo essere svedesi è un bel cimento se lavori al Regno, Tant’è che esiste pure una clandestina “anonima svedesi” per aiutare i nativi di Stoccolma e dintorni.

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La terza stagione di Riget ci insegna che l’Esodo è un’arma a doppio taglio. Le forze del bene, ma pure quelle del male hanno deciso di aprire le porte. In una danza macabra, modello Settimo Sigillo di Ingmar Bergman le vedremmo forse abbarbicate ballare insieme. Intanto il fratellino rischia di trasformarsi in fratellone, il portantino un filo ottuso prova con la telecinesi, tipo Troisi in Ricomincio da tre, mentre la sonnambula Karen domanda e indaga perché gli spiriti la sanno lunga, ma non più del diavolo che ha il volto luciferino di Willem Defoe, Granduca, Signore delle mosche, ma alla bisogna in grado di trasfigurarsi in malevolo gufo. Come insegna l’agente Dale Cooper, i gufi non sono mai quello che sembrano. E fra la neutralità di genere, le molestie sul lavoro è un avvocato (interpretato da Alexander Skarsgård) che rappresenta entrambe le parti, la serie diverte e perturba. Non sapremo sai se il dolore ci potrà mai essere amico. Tuttavia, abbiamo la certezza di quanto possa essere risolutivo il tetrapak. E non possiamo volere che bene a Lars Von Trier, e  a queste “canaglie di danesi”.

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