Il toccante film israeliano Between Worlds a Sguardi Altrove Film Festival

Cinema

M.Beatrice Moia

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Between Worlds è il film drammatico diretto dall’israeliana Miya Hatav, proiettato durante la quinta serata di Sguardi Altrovi Film Festival, giovedì 15 marzo. L’estremismo religioso e le diversità culturali emergono soprattutto nelle relazioni personali, attraverso il dolore di una famiglia ebrea che non riesce ad accettare la scelta laica del figlio e della sua fidanzata.

«Non toccarlo! A una donna è proibito toccare un uomo». Amal è in piedi vicino al letto dove il fidanzato, Oliel, giace da giorni, in coma. È  stato gravemente ferito sul posto di lavoro. Ordinaria quotidianità purtroppo nella Gerusalemme dei dissidi insanabili. Amal si è avvicinata per massaggiare i piedi del fidanzato. Potrebbe risultare importante per tenere attive le terminazioni nervose durante il coma. La madre di Oliel, Bina, la ferma tempestivamente. Per gli ebrei ortodossi le donne possono toccare solo i mariti. Fare diversamente diventa un peccato terribile, una macchia indelebile. Se solo sapesse che Amal e Oliel vivono insieme da tempo, condividendo tutto…E se prima di quell'episodio la giovane aveva creduto, anche solo lontanamente, di poter trovare il coraggio di raccontare tutto, di nuovo ogni speranza svanisce. Bina non sa chi lei sia, la crede la figlia di un uomo anch’esso in coma, ricoverato nella stanza di fianco.

La regista di Between Worlds, Miya Hatav, è in sala per presentare il suo film durante la quinta serata di Sguardi Altrove Film Festival, giovedì 15 marzo. Con lei il marito e una piccolina di pochi mesi. Con quella dolcezza e quella timidezza che sarebbero normali in una bambina, Miya, con il suo inglese un po’ faticoso, apre il cuore al pubblico. La storia di Amal e Oliel è un po’ la sua e di suo marito. Cresciuta in una famiglia ebrea in Israele ha maturato, nel corso degli anni, il desiderio di allontanarsi dalle imposizioni e dallo stile di vita dettati dalla sua religione per esprimere se stessa attraverso l’arte. In modo libero e sostenuta dal marito, anch’esso laico.

Grazie a un animo sensibile e profondo, la giovane regista riesce a costruire una storia delicata e poetica. La narrazione lenta è però sempre in crescendo, di pari passo con lo sviluppo sempre più intenso del rapporto tra Amal e Bina, sostenuto da una recitazione intensa e realistica. Un legame però fondato sul non detto. Anche se, forse, giustificato dal timore. Amal, che si spaccia per una certa Sarah, è consapevole di non avere chance di essere accettata. Lei non è osservante. Però non può e non vuole rinunciare a quella che ormai da anni è la sua unica famiglia, Oliel appunto, anche lui allontanatosi da genitori e sorella a causa di differenti convinzioni religiose. Magistrale l’operazione cinematografica compiuta da Miya nella scelta delle modalità con cui Bina comprende come stanno realmente le cose. La narrazione porta la donna a rendersi conto della realtà senza bisogno di troppe parole. Gli occhi e il cuore di una madre bastano per comprendere. Anche se un figlio è lontano da anni, quel legame non si spezza mai. E il filo ideale, continuazione simbolica del cordone ombelicale, non smette di trasferire sensazioni ed emozioni in modo silente e misterioso. Solo una madre e una giovane donna possono rappresentare così efficacemente questo tipo di rapporto. E solo in questa prospettiva può accadere, come racconta il film, che una donna ebrea osservante possa accettare la presenza di quella ragazza, tanto lontana dalle regole della tradizione. Accettarla come persona per amore di un figlio superando schemi mentali che sembrerebbero inamovibili. Invece succede. Accettazione che sembra metafora di quella guerra dilaniante tra due popoli e tra due religioni che ormai da troppi anni frantuma certezze e sogni, spacca le famiglie, semina violenze e orrori.

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