La vera storia degli spaghetti al pomodoro

Salute e Benessere

Stefania Leo

Spaghetti al pomodoro (foto di repertorio - Pixabay)

È uno dei piatti italiani più famosi al mondo, eppure di italiano non ha quasi niente e gli ingredienti arrivano da molto lontano. Lo spiega Massimo Montanari nel libro "Il mito delle origini"

Gli spaghetti al pomodoro sono forse il piatto italiano più famoso al mondo. I lunghi fili di pasta conditi con salsa rossa restituiscono immediatamente il famoso "italian sound" a qualunque latitudine vengano serviti. Ma di italiano, gli spaghetti al pomodoro, hanno ben poco. Infatti, i vari ingredienti della ricetta come la conosciamo oggi vengono da molto lontano. Il libro "Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro" di Massimo Montanari (Editori Laterza) racconta l'evoluzione di questo piatto.

Pasta: storia di una fake news

Montanari inizia il suo excursus sull'origine degli spaghetti al pomodoro, menzionando quella che forse è la prima, vera fake news della storia gastronomica mondiale. La leggenda vuole che Marco Polo, sul finire del XIII secolo, di ritorno dal suo viaggio in Cina, abbia portato la pasta in Italia. Si tratta di un falso. Infatti, la notizia non è menzionata in nessuno dei manoscritti del "Milione". In quelle pagine si parla solo della farina di sago, utilizzata dagli abitanti di Sumatra per fare "lasagne e altri tipi di pasta". Sì, perché Marco Polo la pasta la conosceva già, e da molto tempo.

Tra "lagana" e "itriyya"

"La pasta è nata come variante del pane, - scrive Montanari -, sottile, non lievitata (ma talvolta sì), a volte essiccata per favorirne la conservazione". Se ne fanno risalire le origini geografiche all'Asia, tra Egitto e Mesopotamia. Alcuni scritti databili tra il III e il VII secolo menzionano impasti sottili, da cui si ricavavano forme allungate, chiamate dai persiani "lakhsha". La pasta viaggiò dal Medio Oriente all'Europa, approdando nel mondo greco, dove divenne "làganon", e poi in quello romano, dove si trasformò in "lagana". In questo momento la pasta non è un genere alimentare a sé stante, ma un ingrediente per altre ricette. Accanto alla sfoglia fresca, tirata ("tracta") e cotta con altri ingredienti, c'era la pasta secca, fatta di grano duro, messa in forma e seccata. Furono gli arabi a introdurre in Italia questa tecnica, che originava un prodotto conosciuto ai tempi con il termine "itriyya". La consuetudine di far seccare la pasta era nota anche agli ebrei, che parlavano di "itrium", simile al greco "tria". L'eredità araba approdò in Sicilia, dove a metà del XII secolo si ha notizia della prima industria di pasta secca e lunga - cioè "itriyya" - della storia. Le condizioni geografiche del suolo e il clima favorevole, insieme all'acquisizione del know how, resero la Sicilia il granaio dell'impero romano, nonché la culla dell'industria della pasta di grano duro.

E i maccheroni?

Un'altra parola che fa parte del famoso "italian sound" è maccheroni. Basti pensare che una delle interpretazioni statunitensi della pasta è conosciuta come "Mac and Cheese", cioè pasta condita con formaggio fuso. Il termine maccheroni viene usato sin dall'XI secolo dopo Cristo, ma non indicava la pasta secca. Era riferita a gnocchi di farina e semola. Poi la parola "macharoni" fu accostata all'aggettivo "siciliani", per indicare quei formati che "si debbono seccare al sole" e "dureranno due o tre anni". Nelle varie regioni d'Italia si diffondono termini nuovi, che indicano i diversi formati di pasta secca. Ad Ancona si parla di tria, in Toscana di vermicelli, a Bologna di orati, a Venezia di minutelli, a Reggio di fermentini e a Mantova di pappardelle. Con l'affinarsi delle pratiche produttive e di conservazione, i maccheroni conquistano lo status di genere alimentare a sé stante. Siamo sul finire del Medioevo e nei libri di cucina si parla semplicemente di pasta, parola rimasta ancora oggi intraducibile in inglese e in tedesco. I ricettari del tempo iniziarono così a parlare di "minestre di pasta".

Il formaggio

"La storia della pasta è legata a filo doppio alla storia del formaggio", scrive Montanari. Basti pensare che due delle ricette iconiche della cucina italiana dopo la pasta al pomodoro, sono la Carbonara e la Cacio e Pepe. Entrambe si basano su ingredienti poveri e di facile conservazione (come la pasta secca): uova, pancetta, formaggio e pepe per la prima, solo formaggio e pepe per la seconda. La stessa fortuna del proverbio "come il cacio sui maccheroni" indica la buona riuscita dell'abbinamento tra pasta e formaggio. I ricettari scritti tra il XII e XIII secolo introdussero un nuovo prodotto accanto al tradizionale condimento del cacio pecorino. Si raccomandava l'uso del parmigiano, all'epoca anche detto "piacentino, o lodigiano, o milanese". Il binomio pasta-formaggio salvò anche i napoletani dalla fame, valendogli il soprannome di "mangiamaccheroni". Le carestie e il pessimo governo spagnolo provocarono infatti un impoverimento delle dispense, approvvigionate di cavolo (sostituto del pane) e di carne. Sul finire del XVIII secolo "i maccheroni diventarono lo street food per eccellenza dei quartieri popolari" di Napoli.

La salsa di pomodoro

"Per secoli la pasta fu rigorosamente bianca", spiega l'autore de "Il mito delle origini". Si aggiungevano formaggio, burro e spezie. Alle volte del lardo. Ma niente salsa rossa. Nel XVIII secolo il pomodoro era già conosciuto in Europa, sbarcato nel Vecchio Continente dal Sud America grazie a Colombo. Il primo a far incontrare spaghetti e salsa rossa fu Hermán Cortés quando occupò il Messico tra il 1519 e il 1521. Si parla per la prima volta di questo ortaggio e delle sue tecniche di cottura nel "Pedacio Dioscoride" di Pietro Andrea Mattioli (1544). La salsa di pomodoro entra nei libri di cucina Europei nel XVII secolo. Chiamata spesso "spagnola", è fatta con pomodori affettati e peperoncino. La prima ricetta compare nello "Scalco della moderna" di Antonio Latini (1692), che parla di "salsa di pomadoro, alla spagnola". Il primo testo a riportare l'incontro tra la pasta e il sugo di pomodoro è "Almanach des gourmand" di Grimod de La Reynière (1807), che documenta come "i pomodori possono talvolta prendere il posto del formaggio come condimento dei vermicelli", scrive Montanari. Ma è a Napoli che si sperimenta il condimento della pasta con il sugo di pomodoro, ma in aggiunta (e non al posto) del formaggio. A istituzionalizzare la pratica di condire la pasta con il pomodoro sarà Pellegrino Artusi, autore di "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene", libro che fonda la cucina italiana moderna.

Aglio, cipolla e spezie

Nel Novecento il pomodoro diventerà il condimento principale della pasta, il formaggio sarà solo un'aggiunta. Condire gli spaghetti con olio d'oliva (e non più solo burro o strutto) diventerà normale solo nei tempi moderni. Cambieranno anche le spezie abbinate agli spaghetti e maccheroni. In origine, accanto al formaggio, si abbinavano "spezie dolci, come la cannella o lo zucchero", spiega Montanari. Non c'erano né aglio o cipolla, che fanno il loro ingresso solo nel XIX secolo, assieme all'ormai istituzionalizzata salsa al pomodoro. Pellegrino Artusi ne ufficializzerà l'uso nel suo ricettario, scrivendo: "Fate un battuto con un quarto di cipolla, uno spicchio d'aglio". Sempre lui aggiungerà alla lista degli ingredienti anche il sedano, il prezzemolo e il basilico. Anche quest'ultima pianta non ha niente di italiano, dato che è nativa dell'India. Il primo ad aggiungerlo nella ricetta della salsa al pomodoro è Ippolito Cavalcanti nel suo "Cucina teorico-pratica" (1837).

"L'identità non corrisponde alle radici"

Seguendo l'evoluzione di un piatto iconico come gli spaghetti al pomodoro, oggi simbolo di italianità nel mondo, si scopre che - per dirla con Massimo Montanari - "l'identità non corrisponde alle radici". "L'identità è ciò che siamo. Le radici non sono 'ciò che eravamo' bensì gli incontri, gli scambi, gli incroci che hanno trasformato ciò che eravamo in ciò che siamo. E più andiamo a fondo nella ricerca delle origini, più le radici si allargano e si allontanano da noi - proprio come accade sotto le piante. Usando la metafora fino in fondo, scopriremo che le radici, spesso, sono gli altri".

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