Parkinson, una possibile terapia dallo studio di una forma ereditaria

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Lo hanno condotto i ricercatori dell'Università di Trento in collaborazione con quelli dell’University College of London, dell’Università di Padova e del Cnr di Milano, riuscendo a delineare un nuovo meccanismo patologico alla base della malattia, che potrebbe anche essere utilizzato in chiave terapeutica per le forme non genetiche

Studiando una rara forma ereditaria della malattia di Parkinson, i ricercatori dell'Università di Trento in collaborazione con quelli dell’University College of London, dell’Università di Padova e del Cnr di Milano, sono riusciti a delineare un nuovo meccanismo patologico alla base della malattia stessa, che potrebbe anche essere utilizzato in chiave terapeutica per le forme non genetiche.

Il ruolo della proteina “LRRK2”

Il lavoro di ricerca, pubblicato sulla rivista scientifica “Brain” è partito dalla valutazione per cui nel mondo sono oltre 10 milioni le persone colpite dalla malattia di Parkinson. E se nella maggior parte dei casi la malattia ha un’insorgenza del tutto sporadica, in alcune situazioni esistono anche rare forme familiari di origine genetica. Da qui è partito lo studio del gruppo di studiosi coordinato da Giovanni Piccoli, ricercatore del Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata (Cibio), che focalizzato l’attenzione su una particolare proteina espressa sia nel cervello che in altri tessuti, chiamata “LRRK2”, che quando presenta una specifica mutazione (G2019S) può essere responsabile di circa il 10 % delle forme genetiche di Parkinson. Con lo studio i ricercatori hanno scoperto che un particolare enzima, detto “Nsf” in presenza della mutazione, riesce a generare aggregati proteici che, con il tempo, danneggiano le cellule nervose.

Il meccanismo dell’autofagia

In virtù di queste considerazioni, quindi, i ricercatori hanno verificato un possibile meccanismo per contrastare il fenomeno, ovvero l'autofagia. "Si tratta di un meccanismo intrinseco di cui dispongono tutte le cellule che permette di eliminare sostanze di scarto o dannose, come per esempio gli aggregati proteici potenzialmente tossici”, ha sottolineato Piccoli. “Gli studi sull'autofagia, a partire dal lavoro del premio Nobel Yoshinori Ohsumi hanno permesso di identificare farmaci in grado di stimolarlo. Nel nostro caso, ci siamo concentrati su uno zucchero naturale, il trealosio, che abbiamo provato a sfruttare per stimolare l'autofagia”, ha ulteriormente spiegato. “Il trealosio si è in effetti dimostrato efficace nel ridurre l'aggregazione proteica, la morte cellulare e i difetti motori e cognitivi nei diversi modelli preclinici di malattia. La possibilità di stimolare l'autofagia rappresenta quindi una strategia terapeutica promettente", ha quindi concluso l’esperto. "Una volta fosforilato, Nsf precipita e forma aggregati proteici che, a lungo andare, danneggiano le cellule nervose anche in aree cerebrali cruciali per memoria e apprendimento", hanno invece commentato le ricercatrici Francesca Pischedda e Maria Daniela Cirnaru, coinvolte nello studio. Adesso, hanno segnalato infine gli esperti, ulteriori studi saranno necessari per trasformare questi dati in una reale opportunità clinica.

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