Coronavirus, la ricerca del Cnr su inquinamento dell'aria e Covid-19

Salute e Benessere

Il possibile legame, argomento molto complesso e su cui sono necessarie comunque ulteriori approfondimenti con approcci multidisciplinari e competenze diverse, è stato al centro di uno studio pubblicato sulla rivista “Atmosphere” 

L’inquinamento dell’aria influenza la diffusione e la mortalità del Covid-19? A cercare di dare risposta a questa domanda, su un argomento molto complesso e su cui sono necessarie comunque ulteriori approfondimenti con approcci multidisciplinari e competenze diverse, ci ha pensato uno studio dell’Istituto di Scienze dell'Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Isac), pubblicato sulla rivista “Atmosphere”. Il lavoro di ricerca, che comunque non sembra dare risposte ancora definitive, ha preso in esame la possibile correlazione tra l’inquinamento dell’aria e la diffusione e la mortalità del Covid-19, evidenziando le conoscenze scientifiche attuali, le possibili conclusioni e gli aspetti che necessitano di ulteriori studi per una migliore comprensione. "E’ plausibile che la già avvenuta esposizione di lungo periodo all'inquinamento atmosferico possa aumentare la vulnerabilità degli esposti al Covid-19 a contrarre, se contagiati, forme più importanti con prognosi gravi. Tuttavia, deve ancora essere stimato il peso dell'inquinamento rispetto ad altri fattori concomitanti e confondenti". E’ questa una delle tesi emerse dallo studio, come hanno specificato Daniele Contini e Francesca Costabile, ricercatori di Cnr-Isac coinvolti nel lavoro di ricerca.

Esposizione pregressa e diffusione nell’aria

Lo studio è partito dalla base secondo cui la diffusione in tutto il mondo del nuovo coronavirus, come si legge nel comunicato stampa diffuso dal Cnr e pubblicato sul proprio sito internet, sembri presentare, nei diversi focolai, notevoli differenze in termini di tassi epidemici e di mortalità. “Si tratta di differenze che sollevano importanti questioni relative all'influenza dei fattori atmosferici, naturali come la temperatura e l’umidità o antropici come l’inquinamento, sulla così elevata trasmissibilità e differenza di mortalità della malattia”, hanno spiegato gli esperti, analizzando quelle che sono le attuali conoscenze scientifiche al riguardo e mettendo in evidenza i dati noti. Il lavoro di ricerca si è diviso, tra l’altro, su due fronti riguardanti da una parte l’influenza dell’esposizione pregressa all’inquinamento atmosferico sulla vulnerabilità al Covid-19 e dall’altra il meccanismo di trasporto per diffusione in aria senza contatto, come hanno spiegato Contini e Costabile. “Gli effetti tossicologici del particolato atmosferico dipendono in maniera rilevante dalle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, per cui non è immediato tradurre valori elevati dei parametri convenzionalmente misurati (PM2.5 e PM10), senza ulteriori caratterizzazioni, in una spiegazione diretta dell’aumento della vulnerabilità al Covid-19 o delle differenze di mortalità osservate”, sottolineano comunque gli esperti. A corredo della complessità e dell’attuale incertezza del tema, i ricercatori hanno anche specificato come i dati recenti mostrino “focolai in aree caratterizzate da livelli di inquinamento molto diversi tra loro, ma i dati sui contagi sono viziati da rilevante incertezza, legata all’attendibilità, precisione e completezza conteggi e alla modalità di esecuzione dei tamponi”.

Cos’è l’airborne

Un tema trattato, come detto, è quello legata alla possibilità della trasmissione del virus in aria, definita in gergo tecnico come “airborne” che, spiega Contini, “può avvenire su due diverse strade: attraverso le goccioline di diametro relativamente grande (> 5 micrometri), emesse da una persona contagiata con starnuti o colpi di tosse, che sono rimosse a breve distanza (1-2 metri) dal punto di emissione. Oppure attraverso il bioaerosol emesso durante la respirazione e con il parlato, o il residuo secco che rimane dopo l’evaporazione, generalmente di dimensioni più piccole (< 5 micrometri), che può rimanere in sospensione per tempi maggiori”. Inoltre, per valutare correttamente la probabilità di contagio attraverso quest’ultimo meccanismo, va considerata un’ulteriore specifica, quella tra ambienti interni (indoor) ed esterni (outdoor) ed è necessario tenere conto anche di differenti parametri, tra i quali “le concentrazioni di virus in aria e il loro tempo di vita, due parametri poco noti: per il tempo di vita si parla di circa un’ora in condizioni controllate di laboratorio, mentre in esterno il tempo potrebbero essere ridotto dall’influenza dei parametri meteorologici come temperatura, umidità e radiazione solare, che possono degradare le capacità infettive del virus”, hanno osservato quindi i ricercatori Cnr-Isac. Ne è emerso come la probabilità di trasmissione con questo meccanismo in outdoor sembri essere molto bassa. “Vi può ovviamente essere una maggiore probabilità in specifici ambienti indoor, come ospedali e aree in cui i pazienti sono messi in quarantena, o mezzi pubblici in cui viaggino molti contagiati”, hanno rilevato gli esperti. In questi ambienti, infatti, la dispersione del virus nell’aria è più limitata in termini di spazio e per questo motivo “si possono osservare concentrazioni più elevate e condizioni microclimatiche più favorevoli alla sopravvivenza del virus. In questi ambienti, è consigliabile mitigare il rischio per le persone suscettibili mediante la ventilazione periodica, la decontaminazione delle superfici e l’utilizzo di sistemi di condizionamento con tecnologie appropriate, per limitare la circolazione di bioaerosol nell’ambiente indoor”, hanno quindi concluso Contini e Costabile.

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