Intervista al presidente del Censis. "Parlare di 150 anni fa è come evocare un'altra era". Le celebrazioni del centenario invece "riuscirono molto bene", in un momento in cui cresceva "un modello di sviluppo economico in cui ancora oggi troviamo identità"
“L’italiano vive nel presente, quindi non ha memoria storica”. Non ha dubbi il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, su quale possa essere la ragione per cui, come mostra un sondaggio di Demoskopea per Civicom, due italiani su tre non sanno che nel 2011 cade il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia.
La cosa non la sorprende?
Non mi sorprende affatto. L’italiano di oggi è un presentista, vive giorno per giorno. Non ha il senso della verticalità del tempo e considera già lungo un arco di 15-20 anni. Parlargli di un evento di 150 anni fa, vuol dire evocare un’altra era.
Poi però, una volta appresa la ricorrenza, il 77% delle persone ritiene importante celebrarla.
E’ una risposta retorica. Perché se si andasse a domandare cosa si celebra, citerebbero genericamente la nascita dello Stato unito. Senza ricordare che importantissimi per il processo unitario sono stati strumenti come la scuola, le infrastrutture (come le poste) e la pubblica amministrazione.
E’ giusto celebrare l’anniversario, dunque?
Le celebrazioni in Italia sono sempre state una cosa funeraria, è sempre meglio evitarle. Anche se io ricordo il 1961, il centenario. Allora le celebrazioni riuscirono molto bene. C’era una sorta di speranza che l’Italia sarebbe diventata grande, che ci univa tutti. Uscivamo dal fascismo, dalla guerra e stavamo diventando ricchi. In quel momento, tra il ’55 e il ’75, l’unificazione dell’Italia è stata fatta da un modello di sviluppo economico in cui ancora oggi troviamo identità. Per cui la preoccupazione degli italiani in questo momento è la tenuta del modello italiano, fatto di pochi debiti, risparmi, imprenditorialità diffusa, che ci ha permesso di resistere bene anche all’ultima crisi mondiale. Lontani invece sembrano i 150 anni dell’unità d’Italia: è più difficile trovare slancio nella celebrazione.
La società del centenario era unita da uno slancio produttivo e una speranza. Com’è la società del centocinquantenario?
Vive una tendenza all’articolazione, per cui ognuno ha i suoi interessi e i suoi problemi, che col tempo sono diventati così specifici che può pensarci soltanto lui. E la personalizzazione dei comportamenti fa sì che ci sia una maggiore solitudine delle persone.
Guarda anche:
Unità d'Italia, tra celebrazioni e polemiche
La cosa non la sorprende?
Non mi sorprende affatto. L’italiano di oggi è un presentista, vive giorno per giorno. Non ha il senso della verticalità del tempo e considera già lungo un arco di 15-20 anni. Parlargli di un evento di 150 anni fa, vuol dire evocare un’altra era.
Poi però, una volta appresa la ricorrenza, il 77% delle persone ritiene importante celebrarla.
E’ una risposta retorica. Perché se si andasse a domandare cosa si celebra, citerebbero genericamente la nascita dello Stato unito. Senza ricordare che importantissimi per il processo unitario sono stati strumenti come la scuola, le infrastrutture (come le poste) e la pubblica amministrazione.
E’ giusto celebrare l’anniversario, dunque?
Le celebrazioni in Italia sono sempre state una cosa funeraria, è sempre meglio evitarle. Anche se io ricordo il 1961, il centenario. Allora le celebrazioni riuscirono molto bene. C’era una sorta di speranza che l’Italia sarebbe diventata grande, che ci univa tutti. Uscivamo dal fascismo, dalla guerra e stavamo diventando ricchi. In quel momento, tra il ’55 e il ’75, l’unificazione dell’Italia è stata fatta da un modello di sviluppo economico in cui ancora oggi troviamo identità. Per cui la preoccupazione degli italiani in questo momento è la tenuta del modello italiano, fatto di pochi debiti, risparmi, imprenditorialità diffusa, che ci ha permesso di resistere bene anche all’ultima crisi mondiale. Lontani invece sembrano i 150 anni dell’unità d’Italia: è più difficile trovare slancio nella celebrazione.
La società del centenario era unita da uno slancio produttivo e una speranza. Com’è la società del centocinquantenario?
Vive una tendenza all’articolazione, per cui ognuno ha i suoi interessi e i suoi problemi, che col tempo sono diventati così specifici che può pensarci soltanto lui. E la personalizzazione dei comportamenti fa sì che ci sia una maggiore solitudine delle persone.
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