Coronavirus, aiuti per la pandemia: ultima chiamata per l’Europa

Mondo

Giuseppe De Bellis

Nel Consiglio europeo del 23 aprile l’Europa politica deciderà del suo futuro, della sua stessa essenza e se non della sua esistenza formale certamente di quella sostanziale

Nel Consiglio europeo del 23 aprile prossimo si deciderà molto più di un pacchetto di misure per aiutare i Paesi dell’Unione Europea ad affrontare l’enorme crisi economica successiva alla emergenza sanitaria del Covid-19. Giovedì, l’Europa politica deciderà il suo futuro, la sua stessa essenza e, se non la sua esistenza formale, certamente quella sostanziale.

È l’ultima chiamata: dopo anni di discussioni, dibattiti, divisioni su argomenti molto importanti e su argomenti molto meno importanti, stavolta l’Ue si trova in una situazione simile a quella del 1957, anno in cui l’idea di una comunità di Stati prese ufficialmente forma con i trattati di Roma. Lì eravamo nel Dopoguerra, qui siamo alle porte della crisi peggiore da quel Dopoguerra. Tutto quello che è avvenuto dal 1957 (ma si potrebbe dire tranquillamente dal 1945) fino a metà febbraio 2020 non è minimamente paragonabile a quello che è accaduto dalla seconda metà di questo febbraio a oggi e che avrà conseguenze per i prossimi anni. Per cui è inutile parlare di decisioni e strumenti pensati per affrontare situazioni difficili, quali la crisi economica post 2008 e il conseguente caos degli anni 2010, 2011, 2012. Qui non si tratta di salvare un Paese o più Paesi che hanno fatto male i conti, che hanno gestito male le risorse. Qui siamo nel pieno di una crisi globale che non ha precedenti in era recente: siamo oltre, siamo in un territorio sconosciuto ai leader di due generazioni.

L’Europa ha tradito molte aspettative, a cominciare dalla principale, ovvero quella di essere una vera Unione politica, sociale, solidale, morale diventando solo un sistema economico e monetario, rispetto al quale purtroppo spesso ogni Nazione (o piccoli gruppi di Nazioni), sulla base delle convenienze economiche, compie le sue scelte.

E allora, se ha un senso vero l’Europa, almeno adesso, deve tornare con la mente al 1957, ai valori di solidarietà, condivisione, unione che ispirarono quel tempo. Il trattato di Roma fu firmato da sei Paesi: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda. Oggi quattro di questi Paesi (più altri importanti) firmano la richiesta di interventi e misure straordinarie, innovative, diverse da quelle immaginate per situazioni come il default greco (e quello italiano sfiorato) di qualche anno fa. Gli altri due (Germania e Olanda) di quei sei Paesi sono i principali oppositori di questa richiesta. Non è questione di rispetto delle regole, di furbizie e di mille altri luoghi comuni. Quelli che sostengono che la rigidità delle regole sia il baluardo della tenuta dell’identità stessa dell’Unione non si rendono conto che così quell’Unione la uccideranno. E non possono essere un premier o un ministro delle finanze di Germania e Olanda a decidere il futuro di tutti, in una situazione come quella attuale. Ora c’è in gioco il futuro di milioni di europei, cittadini, cittadine, ragazze, ragazzi. Questa volta non si può fare leva su sensi di colpa, errori di gestione, presunte superiorità morali e amministrative. Questa volta non ci sono lezioni da impartire e allievi da educare, nonostante alcuni Paesi, e tra questi l’Italia, si siano a volte messi in condizione di non sembrare credibili e affidabili. A situazione straordinaria si risponde con misure straordinarie. Salvo che alcuni degli eredi dei fondatori dell’Europa politica non vogliano che la più celebre frase di Konrad Adenauer abbia per la prima volta un’applicazione vera e conseguenze inimmaginabili: “Siamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non abbiamo tutti lo stesso orizzonte”.

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