Il modello della settimana corta

Economia

Alessandra Zompatori

Dall’Islanda al Giappone sono tanti i Paesi che stanno sperimentando nuovi ritmi applicati al lavoro: una settimana di quattro giorni a parità di salario.

Lavorare un giorno a settimana in meno ed essere più produttivi. Dall’Islanda agli Stati Uniti, passando per la Spagna, la Nuova Zelanda, fino al Giappone: in giro per il mondo sono diversi i casi di sperimentazione della settimana lavorativa di quattro giorni anziché di cinque, anche per cercare di capire se con un minor tempo passato in fabbrica o in ufficio sia possibile raggiungere un migliore equilibrio tra il benessere dei dipendenti e la produttività. 

 

La proposta del Belgio per la settimana di 4 giorni 

Ultimo paese che in ordine di tempo ha aperto alla settimana corta è il Belgio. Il governo del premier Alexander De Croo sta lavorando ad una ampia riforma del mercato del lavoro e tra le misure allo studio c’è proprio quella di passare ad una settimana lavorativa di quattro giorni senza toccare i salari, ma aumentando l’orario: dalle attuali sette ore e mezza a più di nove al giorno. La misura sarebbe su base volontaria, e secondo il partito liberale Open-Vld, che sostiene la proposta, ridurrebbe sia lo stress dei lavoratori che il pendolarismo con un effetto diretto sull’ambiente. Più scettici imprese e sindacati, soprattutto perché circa dieci ore al giorno di lavoro potrebbero avere un riflesso non positivo sul benessere della persona e sulla gestione della vita privata. 

 

Dalla Spagna al Giappone, i test in corso 

In Spagna, è notizia di qualche giorno fa, l’azienda di moda Desigual ha approvato a larga maggioranza, l’86% dei lavoratori, la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni, dal lunedì al giovedì, con l'opzione anche di usare lo smart working. La modifica del modello produttivo porterà però in questo caso ad una diminuzione dei salari di circa il 6,5%.  Nel paese iberico già da tempo si lavora all’introduzione delle 32 ore di lavoro su 4 giorni. La proposta arriva dal Más País, il piccolo partito di Iñigo Errejón. Un esperimento triennale su un numero ridotto di imprese, con un finanziamento statale di circa 50 milioni. Tra gli obiettivi non solo quello di migliorare la vita e la produttività dei lavoratori, ma anche di ridurre l’inquinamento, utilizzare le ore libere per corsi di aggiornamento sull’uso delle nuove tecnologie e sperimentare l’intelligenza artificiale nelle mansioni più ripetitive. In Giappone, Microsoft ha sperimentato le 32 ore nell’estate del 2019 con una produttività salita del 40% e una produzione di CO2 scesa del 20% per la riduzione dell’inquinamento che ne consegue.  In Nuova Zelanda ci sta provando Unilever, il test per i suoi 80 dipendenti si concluderà a fine anno. 

 

La ricetta islandese 

Finora l’esperimento più riuscito è quello dell’Islanda, pur con un numero limitato di lavoratori coinvolti, 2500 dipendenti pubblici, circa l’1,3% della forza lavoro del Paese, tra il 2015 e il 2019 ha ridotto l’orario di lavoro da 40 a 36-35 ore, a retribuzione invariata. Secondo una ricerca condotta dal think thank inglese Autonomy la produttività è rimasta la stessa e in alcuni casi è anche aumentata. Per riuscire a mantenere il medesimo livello di servizi è stato necessario rimettere mano all’organizzazione del lavoro: dal taglio dei compiti inutili, a riunioni più brevi e soprattutto nel settore sanitario, all’assunzione di nuove persone per compensare le ore perse. Per questo motivo tra il 2019 e il 2021 sono stati stipulati nuovi contratti di questo tipo per l’86% dei lavoratori. 

 

La situazione in Italia

Per quanto riguarda l’Italia, in un Paese che secondo i dati Ocse si lavora molto di più che nel resto d’Europa, (peggio di noi solo Grecia ed Estonia), e che non corrisponde affatto a una crescita dei livelli di produttività e salari, la settimana lavorativa corta è circoscritta all’iniziativa di poche aziende private, ma al momento non c’è nessun progetto allo studio.

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