La tragedia dell'infanticidio. Bambini tra possesso e vendetta

Cronaca

Domenico Barrilà

Sono ancora sconosciute le ragioni che hanno spinto Martina Patti ad uccidere sua figlia Elena di 5 anni. Che cosa scatta nella testa di una madre che compie un gesto di questo tipo? Quando i genitori si sentono proprietari della prole, a volte si crea una distorsione per cui il figlio diventa il nemico. Proviamo a esplorare questi territori delicati con una riflessione di Domenico Barrilà.

Negli ultimi due anni, mi è stato chiesto diverse volte di commentare degli infanticidi, tutti ascrivibili a vendetta o possesso, raramente patologie.

Difficile reperire altri inneschi in queste tragedie, purtroppo incessanti. Negli uni e negli altri casi, i piccoli sono strumenti, corpi contundenti, al servizio di quelle lotte senza quartiere che sovente accompagnano il disfacimento di una famiglia, di una relazione.

Loro, i piccoli, fanno parte delle cose da spartirsi o delle armi da usare. È stato il destino toccato alla piccola Elena, uccisa nei giorni scorsi dalla donna che l’aveva messa al mondo.

Confesso una certa fragilità di fronte all’infanticidio, il padre precede il professionista. Lo avevo avvertito per la prima volta una ventina di anni orsono, quando un magistrato mi incaricò di periziare una madre che aveva annegato il proprio bambino di tre anni, nello stesso corso d’acqua che un tempo accolse la madre di lei, suicida.

Un affidamento alla nonna e, al contempo, un rimprovero violento a chi si era congedato egoisticamente, lasciando la figlia di fronte a compiti che si sarebbero rivelati sempre più grandi di lei, condannandola a una faticosa vita di rincorse.

Ero il CTU in quell’occasione, si trattava di stabilire se la donna, al momento del fatto, fosse capace di intendere e di volere. Una formula di rito, troppo angusta per chi è chiamato a indagare ciò che si nasconde nelle sentine di azioni così estreme, dove spesso il carnefice è anche vittima, annientato, senza che nessuno dei vicini se ne avveda, da rovinose tensioni esistenziali, impossibili da fronteggiare con le sue sole forze.

Di quei lunghi mesi conservo ricordi vivissimi, incancellabili, a partire dalle fotografie del bambino appena ripescato. Poche ore prima si era affidato alle braccia della madre, pensava fosse la fortezza più sicura, ma era stata solo la penultima stazione. Posso quasi rivedere il suo stupore repentino, che non fece neppure in tempo a diventare disperato: troppo breve il tragitto che andava dalle braccia della genitrice alle acque che l’aspettavano.

 

Il caso della piccola Elena

Oggi sembra di vedere la stessa immagine, quella catturata dalle telecamere di sicurezza dell’asilo frequentato dalla piccola Elena. Anche in questo caso la bimba, ipnotizzata dalla vista della sua mamma, venuta a prelevarla, si fionda tra quelle braccia, avvinghiandosi con tutte le forze, ansiosa di respirarne la sicurezza granitica, che neppure la maestra più brava avrebbe potrebbe fornirle.

È questo che rende facile l’inganno, il tradimento della fiducia, vigliacco, imperdonabile, e poi lo stupore. Innaturali come niente al mondo. Quando la minaccia arriva dai genitori, i bambini sono indifesi, anche per questo la pedofilia alligna in luoghi “sicuri”.

Non possono sopportare l’idea che proprio gli affetti più vicini possano ferirli, convinti che un genitore, per definizione, agisca solo per il loro bene, quindi la rifuggono, esponendosi senza tutele. Sono persino disposti a negare l’evidenza, pur di non rinunciare alla certezza che il papà e la mamma li amano. Come quell’uomo che mi raccontò, addolorato, di quando il padre lo percosse con un bastone, violentemente, in testa. “Mi voleva uccidere”, commentò, salvo modificare il giudizio la settimana successiva: “Papà non era cattivo, ero io a essere un bambino troppo discolo, per questo mi aveva percosso, forse è stata colpa mia!”.

Impossibile accettare che chi mi regala la vita me la possa revocare, quindi mento a me stesso, è preferibile.

Nell’amore del genitore si annidano giudizi di valore, necessità vitali, “se mi amano significa che valgo”, una bella spinta per affrontare le prime prove. Uno scoglio, i genitori, l’unico a cui una creatura appena arrivata sente di potersi affidare ciecamente. Lo spirito critico è azzerato, c’è solo abbandono assoluto.

I figli, però, proprio perché privi di tutele proprie, diventano sempre più dei semplici mezzi, anche per chi pensa di essere estraneo a tale deriva. Tanti genitori si sentono proprietari della prole, malintesi diritti biologici, e pensano di poterne disporre illimitatamente.

Lo scorso anno, una madre impiccò la figlia adolescente e poi fece lo stesso accanto a lei. La donna, sul profilo Facebook, aveva enunciato la sua concezione della maternità, del ruolo educativo. “Quando un genitore ti chiama più volte al cellulare non lo fa perché vuole darti fastidio, è solo che la sua anima freme nel saperti a casa sano e salvo. Un genitore non ti dà mai il peggio né te lo augura. Un genitore ti ama e ti supplica di avere una vita migliore e più felice della propria". Invoca qui il diritto assoluto di controllo, perché è la madre che deve stare tranquilla, è lei il soggetto.

Essere genitore, può trasformarsi in tormento quando il figlio è divenuto ragione ultima della nostra vicenda personale, all’interno della quale coloro che guardano distrattamente vedono solo amore, tanto amore, invece c’è solo timore, spirito proprietario, quello più subdolo, sostenuto dal pensiero che lontano dalla nostra ombra la prole si smarrisca. Poteva valere, forse, quando il cucciolo d’uomo, inetto per nascita e condizione, era molto piccolo. Se vale anche dopo, qualcosa non funziona, perché significa i pezzi sono fusi insieme.

A questo punto ciò che chiamiamo rapporto educativo è cessato, sostituito da qualcosa di completamente diverso, dove c’è spazio per ogni arbitrio, compreso il più estremo, quello che si è portato via Elena e prima di lei eserciti di bambini e ragazzi. Ma la piccola non poteva saperlo, è già complicato per gli adulti, quand’anche specialisti, intuire cosa cova nell’animo di una persona che non desta troppi sospetti e che, anzi, sembra applicarsi con zelo, uno zelo vero, almeno fino a quando un incidente di vita non predispone le sue trappole, spezzando le sicurezze acquisite e riportando alla luce tutti i sentimenti di inadeguatezza che pensavamo di avere vinto perché qualcuno di aveva scelti. Sovente accade quando la persona con cui progettammo, o semplicemente avemmo, dei figli si trasforma nel nemico. Quando vivi del tuo piccolo mondo, perché non possiedi altro, e ti viene portato via il poco che pensi di avere, la rabbia può oscurare l’intero cielo e renderti pronto a tutto.

Vicino a ciascuno di noi questi mondi a rischio vivono e prosperano, ma difficilmente ci soffermiamo, al massimo li notiamo quando arriva il bagliore dell’esplosione. Troppo tardi.

Non siamo mai estranei, ricordarcene -persone, istituzioni, servizi- renderebbe meno inutile, anche solo di un grammo, la perdita di Elena.

Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, è considerato uno dei massimi psicoterapeuti italiani.
È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra gli ultimi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, nonché il romanzo di formazione “La casa di Henriette” (Ed. Sonda).
Nella sua produzione non mancano i lavori per bambini piccoli, come la collana “Crescere senza effetti collaterali” (Ed. Carthusia).

È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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