Dal Politecnico alla schiavitù nei campi, la lotta di Yvan Sagnet

Abbiamo incontrato Yvan Sagnet nel suo piccolo appartamento romano, in zona Aurelia. È un uomo dall’aria seria e, senza che questo sia contraddittorio, dal grande sorriso. È arrivato in Italia nel 2008, in mano l’iscrizione al Politecnico di Torino grazie a una borsa di studio che però perde, per un esame, tre anni dopo. “Dovevo uscire dalla casa dello studente e cercare un alloggio, all’improvviso avevo una necessità impellente di denaro. A Torino non riuscivo a trovare nulla, e quando ho sentito che in Puglia cercavano lavoratori stagionali per la raccolta di pomodori ho deciso di provare”. Quello che Yvan trova una volta arrivato a Nardò, però, non è quello che si aspetta. Il ghetto “Una struttura totalmente autocostruita, piena di persone e completamente priva di qualsiasi tipo di servizio, igienico e sanitario. Io pensavo, ingenuamente, di andare a stare in un bed & breakfast o in un albergo, è stato scioccante”. A Yvan, però, quei soldi gli servono per costruire il suo futuro. Quindi decide di rimanere. “È un mondo fatto di violenza, intimidazioni e prepotenze. Per la prima doccia ho dovuto fare ore di fila. C’erano milleduecento persone per cinque bagni in totale”. La vita dei lavoratori stagionali, in particolare se migranti, è questa. Paghe da fame, nessun rispetto per le persone e la totale cancellazione di ogni diritto; l’unico che ti rimane è quello di andartene. E nemmeno quello è garantito fino in fondo. Ma la forza lavoro serve a grandi e piccole aziende agricole che spesso scelgono di chiudere un occhio, se non entrambi: appaltano i lavori a cooperative che, a loro volta, si affidano ai caporali. Che spesso sono, anche loro, migranti. In Italia, ci dice Yvan, c’è una geografia del caporalato. In alcune aree sono italiani, in altre africani, in altre ancora europei dell’est. Il sistema La prima cosa che devi fare, una volta arrivato al campo , è presentarti al caporale e consegnargli i tuoi documenti. Senza quelli, però, perdi di fatto la tua identità e, anche se non lo sei, inizi a sentirti un irregolare. Quei documenti, nel lasso di tempo che passa tra l’arrivo al campo e l’inizio effettivo del lavoro, vengono dati ad altri lavoratori, loro sì irregolari, che li utilizzano in caso di identificazione o controlli di vario genere. Passano settimane prima di tornare in possesso dei documenti e di iniziare a lavorare nei campi. Nel settore agricolo le posizioni irregolari sono il 23% del totale, secondo i dati Istat relativi al 2023. Parliamo di circa 230.000 persone, di cui 55.000 donne, anche se la presenza femminile nel ghetto di Nardò era nulla. “Il caporalato però non nasce con l’immigrazione da altri paesi, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale i lavoratori sfruttati erano italiani, tendenzialmente del sud”, spiega Yvan. La legge che colpisce, anche penalmente, chi sfrutta i lavoratori è sorprendentemente giovane. Qualche settimana dopo la protesta che Yvan guida nel 2011 e che ci racconta nel dettaglio nel podcast, viene istituito ex novo un articolo del Codice penale, il 603-bis, che però in origine puniva il solo caporale. Sarebbero dovuti passare cinque anni per una modifica alla legge - la 199 del 2016- che estendesse la responsabilità anche al datore di lavoro una volta dimostrata l’intermediazione del caporale. "È necessario fare di più", dice Yvan, "anche da parte dei governi regionali. Dopo la legge anti-caporalato sono state introdotte delle misure spot, che però non sono sufficienti perché si rimane sull’aspetto repressivo. Mancano interventi per quanto riguarda la prevenzione. Serve una riforma complessiva dell’ispettorato del lavoro. In Italia ci sono 5.000 ispettori del lavoro, in Germania - ad esempio - sono 80.000". Yvan Scopre che il fenomeno è molto più diffuso di quanto pensasse, legato alla stagionalità delle produzioni: estate in Puglia per i pomodori, l’autunno e l’inverno ci si sposta in Calabria per gli agrumi. In Campania, ovviamente, è tutto in mano alla camorra, così come la Calabria è gestita dalla ‘ndrangheta. Ma il caporalato è presente anche al centro, nel basso Lazio in particolare, e al nord: Lombardia, Piemonte. Nelle regioni settentrionali sono soprattutto le cooperative o le agenzie interinali che prendono i lavori in appalto, in una dinamica “parallela” a quella della contrattazione collettiva. Le aziende offrono, ad esempio, “pacchetti” di trenta giornate alle cooperative che invece di corrispondere al lavoratore un compenso secondo legge, vanno al ribasso. E così si perpetua il sistema di sfruttamento. Ma non esiste solo il lavoro in nero, c’è anche quello “grigio”. I braccianti vengono assunti per un totale di 102 giornate lavorative per due anni ma in realtà ne fanno molte di più. 102 giorni a biennio, infatti, sono il limite massimo per poter chiedere la disoccupazione agricola. L'attivismo, le minacce e l'associazione "No Cap" Dopo la stagione a Nardò, Yvan torna a Torino e si laurea. Ma il ricordo dei mesi da schiavo rimane lì, nella sua testa. Nonostante le minacce ricevute, decide di riprendere un treno e tornare in Puglia, tra i suoi ex compagni di lavoro e di sfruttamento. “Ero rabbioso, quindi sono tornato lì per proseguire la battaglia, era una responsabilità che sentivo profondamente. Non potevo lasciare le cose a metà”. Inizia a lavorare con la CGIL, ma le cose funzionano solo fino a un certo punto. Quindi esce dal sindacato e fonda la sua associazione. Si chiama “No Cap” e cerca di collaborare con alcune aziende della grande distribuzione. Il ragionamento è semplice; la GDO schiaccia i produttori perché agisce, dice Yvan, secondo la logica del prezzo più basso. Se si vuole essere competitivi, se si vogliono i supermercati pieni, il costo dei prodotti deve essere basso. Questo costringe gli agricoltori e i proprietari terrieri a fare lo stesso con i braccianti: vendo a poco, devo poter pagare poco. L’alternativa è chiudere. E l’unico costo che si può abbattere è il costo del lavoro. È un circolo vizioso dal quale "No Cap" cerca di uscire stringendo accordi con i produttori da una parte e con alcune grandi catene dall’altra: il prezzo del prodotto è un po’ più alto degli altri, ma l’associazione appone sulle confezioni un bollino di equità e sostenibilità sociale e, così, chi compra i prodotti bollinati “No Cap” sa che per produrre quell’alimento è stata utilizzata una filiera socialmente sostenibile che non sfrutta i lavoratori. Per il suo lavoro, Yvan è stato insignito dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana dal presidente Mattarella, il 13 ottobre del 2016. La storia di Yvan Sagnet fa parte del podcast Cose di oggi. Puoi ascoltarlo su Spotify a questo link