Aziende chiuse: viaggio nel lavoro che non c’è più

Cronaca
L'Ipsa, azienda di impianti e presse di Albano Sant'Alessandro (Bergamo) ha fallito nel 2012. Nel capannone sono esposti i macchinari in vendita. 35 operai sono rimasti senza un posto. Foto: Francesco Cito
2012_11_14 Albano Sant'Alessandro

Cancelli serrati, capannoni e macchinari in svendita. Migliaia di operai scomparsi. Per le strade della Lombardia, la regione più colpita dai fallimenti nel 2012, la crisi sgretola l’eccellenza industriale italiana: il reportage

di Chiara Ribichini

“Entrate pure. Vi mostro la proprietà. Qui è in vendita l’eccellenza dell’industria italiana. Abbiamo carroponti, testa stozzatrice per fresa, saldatrici, cesoie, ganci per sollevare i pezzi delle presse”. L’alto cancello azzurro, compatto e privo di aperture che permettano agli sguardi esterni di passare, si apre. Nel cortile interno non c’è più nulla. Vuoto e silenzio. Sul suolo ci sono ancora le tracce dei binari utilizzati per il trasporto della merce. Sulla destra un capannone. Conserva tutto ciò che resta dell’Ipsa, azienda di impianti e presse di Albano Sant’Alessandro, in provincia di Bergamo fallita pochi mesi fa lasciando senza lavoro i 35 operai sopravvissuti ai tagli e alle riduzioni di organico degli ultimi anni. Decine di macchinari “messi in svendita perché qui non servono più” come spiega il signor Alfio che ha rilevato i beni dal Tribunale. Beni che si rivendono a fatica. “Una volta sarebbero andati a ruba. Sono macchine di valore. Ma ora in Italia nessuno riesce più a comprare, neanche l’usato. Sono riuscito a vendere qualcosa ai tedeschi o a qualche azienda brasiliana. Nonostante in alcuni casi per loro il trasporto costi più del macchinario in sé”.

All’interno del capannone si respira un forte odore metallico. I macchinari dell’Ipsa sono esposti accuratamente. Spenti, immobili, conservano i segni dei tanti anni di lavoro. Ci sono i tubi aspiratori di fumo per le saldatrici già acquistati dai tedeschi per 500 euro l’uno. “Nuovi costerebbero 1200-1300 euro” spiega il signor Alfio. Catene vendute a 6 euro al kg. E ci sono i pezzi “da catalogo” che catturano subito lo sguardo per la loro imponenza. Come una fresa a montante mobile Ceruti, pagata al tribunale 350 mila euro, un tornio verticale a controllo prodotto in Russia, come dimostrano i caratteri cirillici, un’alesatrice a montante Pama. Accanto c’è un piccolo laboratorio. Sulla porta un cartello con il timbro del Tribunale e la scritta inequivocabile: fallimento. Il signor Alfio, 70enne di origine toscana, nel presentare il materiale in vendita non riesce a nascondere l’amarezza del vedere quelle macchine, di cui conosce tutte le funzionalità, ferme. “Avevamo la più bella industria. Poi nel 2008 è arrivata la crisi e tutto è cambiato”.

Tutto è cambiato anche nelle altre 2105 imprese della Lombardia che nei primi dieci mesi dell’anno hanno portato i libri in tribunale (LA MAPPA). Come la Omplast Srl di Trescore Balneario, in provincia di Bergamo. Un altro esempio di eccellenza industriale italiana travolta dalla crisi e fallita. Fondata nel 1989 l’azienda, leader nel trattamento di selezione, recupero e riciclo degli imballaggi in plastica, aveva ricevuto il premio innovazione tecnologica 2004 e l’Oscar dell'Imballaggio 2005. Ora i cancelli sono chiusi, il citofono suona a vuoto. E i 21 lavoratori, numero che era stato già notevolmente ridimensionato negli ultimi anni, sono in Cigs per cessata attività dal giugno scorso. Alla Frattini di Seriate, un’azienda di costruzioni meccaniche in provincia di Bergamo, il cartello indica ancora di prestare attenzione per l’uscita degli operai. Ma i 192 lavoratori non ci sono più. Hanno lottato fino all’ultimo contro lo spettro della disoccupazione, presidiando lo stabilimento per tre anni. Poi, lo scorso 12 ottobre, l’ordine di sgombero. "L'azienda era piena di debiti. Per i lavoratori è stato un fulmine a ciel sereno" racconta Margherita Dozzi, della Fiom Cgil di Bergamo. Alla Fin Beton di Coccaglio, impresa edile in provincia di Brescia in concordato preventivo, il grande parcheggio retrostante ospita decine di camion “marchiati” con il nome della ditta. Parcheggiati. Fermi. Come loro gli 80 lavoratori ora in cassa integrazione che il 25 febbraio saranno licenziati.

E’ invece completamente vuoto il parcheggio della Tamoil di Cremona. Non c’è più nessuno nella piazza antistante l’ingresso che, ironia della sorte, è intitolata ai Caduti del lavoro. “Appena un anno fa, al mattino, passavano di qui fino a 400 camion. Si formava una lunga coda che spesso bloccava la tangenziale” racconta Fausto, uno dei 300 ex lavoratori della raffineria che non ha fallito ma è stata costretta a chiudere per l’impossibilità di far fronte alle difficoltà economiche. “E’ stato un concatenarsi di diversi aspetti. Le prime avvisaglie le abbiamo avute nel 2007 quando l’Unione Petrolifera, in fase di rinnovo di contratto nazionale, ha detto che in Italia si raffinava di più rispetto al consumo. Per un futuro c’era poi bisogno di investimenti per adeguarsi ai tempi. La Tamoil avrebbe dovuto spendere 900 milioni di euro per costruire un impianto che trasformasse l’olio combustibile, che si utilizzava nelle centrali di vecchio tipo, nei prodotti nobili come il metano oggi maggiormente richiesti. Servivano investimenti anche per adeguarsi alle nuove normative sull’inquinamento. E la guerra in Libia non ha fatto altro che accelerare un processo già avviato”. 53 anni, capelli rossi brizzolati, qualche lentiggine sul volto, Fausto ricorda il fermento che ogni giorno circondava lo stabilimento e di conseguenza, la città. Ma ricorda soprattutto il giorno in cui, dopo più di 30 anni, ha salutato i suoi colleghi. “Il distacco dal lavoro è stato il 19 dicembre. Qualche lacrima, qualche abbraccio. Quel senso di sconforto e rassegnazione che non mi ha più abbandonato. La rabbia, invece, si era già dissolta con la consapevolezza che non c’erano alternative alla chiusura e la soddisfazione di aver portato a casa un accordo sindacale buono: in tutto, tra cassa integrazione e mobilità, abbiamo cinque anni di ammortizzatori sociali”. E con fierezza sottolinea: “L’accordo della Fiat di Termini Imerese ricalca il nostro”.

Gli impianti della Tamoil sono rimasti accesi fino al giugno del 2012. Poi, dopo più di 60 anni di attività, la fiaccola si è spenta. Quella fiaccola che anche da lontano permetteva di individuare la città di Cremona. Più visibile dell’alto e celebre Torrazzo. “E’ stata spenta quando si è fermata l’attività. Era una valvola di sicurezza, segnalava gli impianti in marcia”. Oggi alla Tamoil resta solo un deposito. E un cartello: “Nuovo self service per cassintegrati”. L’ultimo segno dei 300 lavoratori, 1000 considerando tutto l’indotto, che hanno visto la loro azienda sgretolarsi sotto i loro occhi. Sono oltre 57 mila, secondo i dati forniti dalla Cgil, i licenziamenti in Lombardia nei primi undici mesi del 2012. Il 26% in più rispetto allo stesso periodo del 2011. In Italia, secondo gli ultimi dati diffusi dall'Istat, i disoccupati sono quasi 2,9 milioni. E' il dato peggiore dal 1992. Nel solo mese di ottobre le persone in cerca di un lavoro sono diventate 100 mila in più.

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