Io vigile del fuoco due anni fa in Abruzzo, oggi a Manduria

Cronaca
Un'immagine di una tendopoli in Abruzzo
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Le tende dell'emergenza che accolgono gli immigrati sono le stesse usate per il sisma del 6 aprile. “Abbiamo costruito la prima tendopoli a L’Aquila. Per giorni abbiamo scavato a mani nude in cerca di sopravvissuti” ricorda Antonio Jiritano. IL RACCONTO

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di Chiara Ribichini

“Tu mettiti lì, ora ti porto il materasso. A te manca la coperta, qui serve un cuscino, lì un lenzuolo”. Il campo di Manduria (in provincia di Taranto) ha preso vita in poche ore ed oggi ospita oltre un migliaio di immigrati sbarcati dal Nordafrica. Tunisini, libici o egiziani in fuga dai loro paesi alla ricerca di un futuro migliore. Ma quelle stesse tende blu su cui campeggia la scritta Ministero dell’Interno, due anni fa, accoglievano gli aquilani e i cittadini di Onna, Paganica o San Giorgio. Tante vite interrotte dal terremoto del 6 aprile che distrusse il centro storico del capoluogo abruzzese e interi comuni e causò 309 vittime. E a montare quelle strutture temporanee per gli sfollati del sisma c’erano molti dei Vigili del Fuoco che oggi sono corsi a Manduria. Uomini delle emergenze sempre divisi tra i soccorsi, i pericoli, gli allarmi. Sempre a contatto con la disperazione delle persone. Oggi come due anni fa.

“Quel giorno, il 6 aprile, siamo partiti alle 6 in punto da Roma. Direzione L’Aquila. Un fax ci aveva avvisato della scossa di 5.9 gradi della scala Richter. Ci siamo precipitati con i mezzi che avevamo. Alcuni veicoli sono molto vecchi e in pessime condizioni. E qualche camion si è fermato per strada” racconta Antonio Jiritano, coordinatore nazionale del Sindacato di base dei vigili del Fuoco che ha vissuto in prima persona ieri il terremoto in Abruzzo e, oggi, l’emergenza immigrazione a Manduria. “Arrivati sul posto il pensiero è stato uno solo: scavare. Con le ruspe o con le mani. Per tre giorni ininterrottamente. Abbiamo iniziato dalla Casa dello Studente. Non c’era un’organizzazione, nessuno aveva il polso della situazione, c’era solo tanta confusione. Ricordo colleghi de L’Aquila che non avevano ancora informazioni sulla sorte dei loro familiari. Ma erano lì, accanto a noi, con le mani tra le macerie alla ricerca di sopravvissuti o vittime”.

Tre giorni, quelli dopo il sisma, da non raccontare. “Nessuna doccia, nessun cambio, nessun riposo. Solo qualche caffè offerto dai pochi aquilani che avevano una casa e due fornelli”. Tre giorni tra le macere e a gestire l’emergenza. “Le prime tende che abbiamo montato sono state quelle blu del Ministero dell’Interno. Le stesse che oggi abbiamo tirato su a Manduria” spiega Jiritano. La prima tendopoli costruita in Abruzzo è stata quella nel centro storico de L’Aquila, proprio davanti alla caserma dei vigili del fuoco. Poi, quelle “macchie blu” sono spuntate anche ad Onna, Paganica. E con il passare dei giorni sono arrivate tende migliori da tutto il mondo.

“Nei primi giorni ci siamo arrangiati con tutto quello riuscivamo a recuperare. Ad Onna abbiamo costruito una specie di capanna-caserma con delle tavole di legno e un po’ di cellophane. E’ diventato un punto di aggregazione, una sorta di bar del posto” ricorda Jiritano. Poi con il tempo, l’emergenza è diventata normalità. Le tendopoli sono state sostituite dalle new town. Ma quelle passeggiate per accompagnare gli abruzzesi a riprendere qualche oggetto nelle loro abitazioni non si sono mai interrotte. Ogni giorno. Avanti e indietro. Ancora oggi, due anni dopo il sisma.“Bisogna vestirli di tutto punto e mettergli il caschetto. Tornano spesso per prender qualcosa. O, più semplicemente, per vedere come sta la loro casa. E la loro città. E’ un modo per non perdere il contatto con la vita che è stata e che non sanno se mai tornerà” racconta Jiritano.

Oggi in Abruzzo l’emergenza è finita e, dal dicembre del 2010, sono rimasti solo 55 vigili del Fuoco. “Ma la gente ha ancora bisogno di noi, c’è moltissimo da fare. Nel centro storico ci sono continui crolli a causa della scarsa manutenzione” denuncia Jiritano. La paura del terremoto è stata superata ma tra i cittadini permane una sorta di disagio. “Puoi parlare anche di pallone o di tv ma inevitabilmente, primo o poi, i loro discorsi tornano sempre a quella notte”. E alla vita sospesa di oggi. “Non si sentono più padroni né della città né della casa. L’Aquila era una città divisa in rioni dove tutti si conoscevano, una grande famiglia che oggi non riesce più a ricongiungersi. Perché nelle nuove case costruite dal governo sono stati tutti sparpagliati”.

A Manduria, invece, i pochi discorsi che gli immigrati delle tendopoli riescono a improvvisare in italiano ruotano sempre intorno una sola parola: lavoro. “Non chiedono una casa ma un’occupazione, anche per 5-10 euro al giorno. E molti sognano di andare in Francia” racconta Jiritano che ha seguito la creazione del campo fin dal primo giorno, il 31 marzo. “Abbiamo portato a Manduria le tende de L’Aquila. Ma la tendopoli per gli immigrati è tutta recintata e sembra una prigione. Peggio: un canile. Le condizioni sono drammatiche. Ho visto scaldare pasta in bianco con schiuma di carne. Non credo che potranno resistere a lungo in quelle condizioni. Temo che presto possa scoppiare una vera e propria rivolta”.

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