"Ci vorranno più di tre anni per tornare a L’Aquila"

Cronaca
L'Aquila, piazza Duomo, aprile 2010
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Scendere in strada e non sapere dov'è la farmacia. Percorrere chilometri per portare tuo figlio a giocare con gli amici. Aprire la porta di casa e non trovare il volto del vicino. La testimonianza di Massimo e il reportage di SKY.it a un anno dal sisma

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Fotogallery e testi a cura di: Concetta Desando, Pamela Foti, Chiara Ribichini, Daniele Troilo

“Un amico che ora vive a Bazzano mi ha raccontato che l’altra mattina, uscendo da casa, ha trovato una signora che piangeva. Aspettava alla fermata dell’autobus. Doveva comprare alcune medicine. Ma non sapeva né in che direzione dovesse andare né dove fosse la farmacia. Attorno a queste grandi case, infatti, non c’è nulla. Non ci sono negozi, non ci sono scuole, non ci sono nemmeno posti dove i bambini possano andare a giocare”.
Massimo, come molti altri aquilani, ancora oggi vive negli alberghi messi a disposizione dalla Protezione Civile. “Abbiamo la nostra stanza – racconta a SKY.it – e c’è anche una mensa. E’ qui che mangiamo a pranzo e a cena”.

Spera di tornare alla vita di prima nel giro di tre anni. “Ma è solo un sogno. Ci vorrà molto più tempo, perché la ricostruzione de L’Aquila non è ancora iniziata”.
Sono le stesse parole che ci ha detto due mesi fa, quando ha deciso di aprire un gruppo su Facebook e ha invitato la piazza virtuale a scendere in strada, quella vera, con le carriole e le chiavi per rimuovere le macerie dal centro storico e riaprire la città distrutta dal sisma del 6 aprile 2009.
“All’inizio le manifestazioni sono servite alla gente per incontrarsi. Le persone venivano da me per ringraziarmi e abbracciarmi. Non mi dicevano sono qui per riconquistare la zona rossa, mi dicevano grazie per averci fatto incontrare”.
Perché la vita sociale a L’Aquila è stata completamente sradicata. Prima del terremoto in città vivevano 70 mila persone. Oggi, invece, la gente è stata distribuita su tutta la provincia e abita almeno a 40 chilometri di distanza dal centro.
“Ho sentito spesso parlare di quartieri dormitorio– dice Massimo – I miei amici che vivono nei progetti C.A.S.E. non sanno nemmeno come si chiama il loro vicino. Forse per chi sta a Roma o a Milano questo può sembrare normale. Ma per noi non lo è. In poco tempo sono stati costruiti quasi cinque mila appartamenti ed è stato un miracolo. Ma sarebbe stato meglio riaggregare nello stesso quartiere le famiglie che hanno sempre vissuto l’uno affianco all’altra”.

E racconta che in città non c’è più la piccola bottega con l’artigiano che faceva il pane. E nemmeno l’alimentare che aveva il prodotto tipico della zona, come il formaggio, la ricotta e la carne, dove incontravi l’amico e facevi quattro chiacchiere. Perché il centro de L’Aquila non esiste più e i piccoli artigiani hanno dovuto chiudere. 

Anche la realtà in cui oggi vivono Massimo e il figlio è cambiata. “Non è più la nostra” dice. “Abbiamo perso i nostri punti di riferimento. Ci ritroviamo ad affrontare lunghi viaggi per andare a lavoro, percorriamo 70/80 km per accompagnare i nostri piccoli a scuola e poi ancora un’ora di macchina per portarli magari agli allenamenti di rugby. Questo è l’unico svago rimasto a mio figlio da quando gli amici con i quali giocava sotto casa vivono lontano. Il campo in cui si allenava prima era distante non più di 800 metri. Ma ora nella zona dell’aquilano non c’è più nemmeno un campo sportivo. Noi genitori facciamo i salti mortali per i nostri figli. Abbiamo il dovere di farli socializzare e di farli vivere un po’ di quella normalità che hanno perso”.

Massimo lavora all’Università de L’Aquila, alla Facoltà di Scienze, la prima ad essere stata riaperta dopo il terremoto. Ma non è stato così per tutte. Ingegneria è quasi completamente crollata. Le facoltà letterarie che stavano in centro ora sono nella zona industriale della città, nei capannoni.
“Non esiste più una casa dello studente. E il 99% degli universitari viaggia avanti e indietro tutti i giorni. Arrivano la mattina alle 9, vivono l’ateneo, hanno la mensa più o meno funzionante con i cibi precotti che arrivano da 30 chilometri di distanza, e poi alle 17 prendono gli autobus che partono in tutte le direzioni. Rieti, Roma, Pescara. Teramo. Sono ragazzi coraggiosissimi. Già 4 giorni dopo il terremoto gli studenti di Fisica hanno sostenuto le sessioni di tesi. A loro va il nostro grazie. Su 70 mila persone che vivevano a L’Aquila, 28 mila erano studenti universitari. E gli iscritti oggi sono solo 2500 meno dell’anno scorso. Un vero miracolo”.

Ma il volto de L’Aquila, oggi, è anche quello della disperazione, del degrado sociale. “La qualità della vita è crollata - dice Massimo – La gente deve affrontare problemi che prima non aveva. E’ esasperata. E inizia a dare di testa. Basta guardare come sono aumentati i fatti di cronaca nera”.
“Per questo noi ci battiamo affinché la nostra città venga riaperta. Sì, riaprire la città è il nostro motto. E tutti i centri che stavano intorno. Perché erano un'unica cosa con L'Aquila. La sera, infatti, proprio come i pesci che gettata la rete la mattina si ritrovano sul fondo a fine giornata, gli abitanti dei paesini vicini affluivano tutti nel cento storico. Per un caffè, una passeggiata o una semplice chiacchierata con i compari”.

Venti giorni fa sono iniziati i lavori di costruzione a casa di Massimo. Un appartamento nella periferia della città e classificato categoria B, quindi inagibile ma con lievi danni. Entro settembre tutti i proprietari di case B faranno ritorno nelle loro abitazioni. In centro e nei paesini limitrofi, invece, tutto è fermo. Nessuno sa quando arriverà il loro turno.

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