In Treatment 3: la recensione della prima settimana

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Sul canale 110 è tornato In Treatment con la terza stagione, quella finale, e come di consueto tornano anche le recensioni a cura del Professor Roberto Goisis e dei suoi colleghi della Società Psicoanalitica Italiana. In attesa degli episodi della seconda settimana di terapia (in onda sabato 1 aprile alle 21.15), leggi la recensione di quelli della prima: ecco il parere degli esperti

di Pietro Roberto Goisis, Psicoanalista S.P.I.

 

 

Bentornato “dottor” Mari! Noi, gli psicoanalisti della SPI, la stavamo aspettando. Fa sempre effetto quando un “collega” si allontana dal lavoro, quando non ce la fa più a stare in seduta. Il cinema lo aveva già mostrato ne “La stanza del figlio” di Nanni Moretti. Quando la realtà esterna e le turbolenze interne diventano troppo intense, va bene fermarsi. La stavamo aspettando, anche perché avevamo pensato che lei avesse davvero bisogno di uno stacco, ma soprattutto che le potesse risultare utile (oserei direi necessario…) un momento di confronto e di sostegno gruppale. La nostra è una professione che si svolge in uno stato di enorme solitudine, per di più a contatto con la sofferenza altrui. Il sostegno, il confronto e il conforto dei colleghi è fondamentale. Durante, e alla fine, della Stagione 2 era frequente nei nostri commenti il porsi la domanda: ma chi è davvero il paziente, Mari o i suoi interlocutori?

 

La prima settimana ci mostra Giovanni alle prese con nuovi e vecchi pazienti, tra terapie già in atto e nuovi incontri. Come sta il terapeuta? Come affronta il suo lavoro? Certamente non ha perso il tratto caratteristico della sua fragilità e incertezza. È ancora preoccupato per la sua salute, fantasmi di malattie su base ereditaria o familiare lo turbano, ma in seduta sembra aver ritrovato la sua bussola. La nave ha ripreso la rotta. È tornato davvero tra di noi. Questa prima settimana - una buona e onesta settimana di lavoro - forse proprio per la sensazione del cambiamento, mi ha fatto pensare alla diversità. Mi pare, infatti, che questo sia il tema ricorrente, una sorta di filo conduttore delle persone che si presentano nello studio e delle storie che si intrecciano. Mari, per primo, appare diverso. A partire dai fiori appena comprati, dei tulipani bianchi recisi, sistemati con una cura un po’ frettolosa, ma pur sempre un tentativo di rendere “l’atmosfera un po’ più allegra”.

 

Già la prima paziente, Rita, un’attrice in crisi con la memoria nella recitazione, gli pone dei possibili dilemmi etici: ci si può occupare del parente stretto di un nostro ex-paziente? Patrizia, la sorella, era stata in terapia con lui circa diciotto anni prima. Egli decide su questa base di accettarne la presa in carico. Giusta scelta? La paziente sarebbe andata da qualcun altro? Chissà… Facile pensare che la sovrapposizione della sua storia con quella della sorella abbia reso necessario, se non indispensabile, per Rita consultare proprio Giovanni. Le amnesie sembrano infatti collocarsi lungo il fantasma di una malattia tumorale, su base genetica che ha colpito proprio la madre e la sorella e che la paziente teme possa arrivare pure a lei…anche se rifiuta di eseguire gli opportuni test diagnostici predittivi. Siamo solo agli inizi; anche questa non si presenta come una relazione facile per il terapeuta, che però, a conferma di un ritrovato equilibrio e consapevolezza del suo ruolo interroga la paziente sulle ragioni della sua motivazione, chiedendole: “Come mi ha scelto?”. Un dubbio e una domanda sono un buon segnale!

 

“Non ho mai avuto in terapia un prete!”, confessa candidamente Mari a Riccardo, padre Riccardo, il paziente del martedì. Situazione infrequente, in effetti, nei nostri studi. Peraltro di grande interesse. Chi entra nella stanza, quanto il ruolo (l’abito del monaco, verrebbe da dire…), quanto la persona? Cosa cercare di sé in quella stanza? Verità, fede, credenze…Domande basilari nella vita quanto nella terapia. Mari appare curioso, quasi incredulo, ma segue con attenzione i racconti, le fatiche e le titubanze del sacerdote. Lo guarda con timore, sembra preoccupato. Deve districarsi tra piani eccessivamente razionali, derive filosofiche, difese intellettuali e la lusinga (?) di un incontro tra cervelli e non tra emozioni. Con cautela inizia un parziale lavoro di confrontazione. Riccardo ha delle richieste improvvise (bere, fermarsi). Dobbiamo forse temere qualche agito, degli atti impulsivi, magari autolesivi? Tornerà in studio per iniziare un percorso terapeutico?

 

Luca, il mercoledì, ci confronta con una delle diversità per eccellenza dei tempi nostri, l’omosessualità. Per di più in adolescenza. Abile scelta narrativa quella di non trattarla come il tema centrale, se non nelle preoccupazioni relative alla promiscuità o all’uso/abuso della sessualità. Altre, in realtà, sono le “diversità” che appaiono in seduta. In primo luogo la tecnologia (macchina fotografica, immagini, smartphone, messaggi vocali, ecc), mostrata come una protesi dell’individuo. Che uso farne? Come far “parlare” questo linguaggio, senza esserne storditi? Quali opportunità si rischia di perdere mettendola a tacere? Quando è proprio così che Luca porta in scena la figura della propria madre naturale. L’adozione, tema cruciale in adolescenza, ci presenta l’ennesima area di diversità, con le tematiche abbandoniche e l’esperienza traumatica che ne consegue.

 

Il giovedì sera, approfittando della porta lasciata aperta da un paziente che sta uscendo, una giovane donna, Bianca, si introduce nello studio senza aver preso un appuntamento. Mari la accoglie, comunque, nonostante una piccola perplessità inziale. “Lei è bravo, dottore?”. Lei parla in romanesco, dice parolacce, un flusso di parole e di racconti disorganizzati; fuma in seduta anche senza permesso; abita in periferia, lavora come commessa in una profumeria, deve mantenere la famiglia. Ha presentato un malessere acuto (un attacco di panico) del quale ha poca consapevolezza. “Mi dia il farmaco più forte che ha!”. Giovanni non è contrario, ma le propone di cercare di capire cosa le stia succedendo. Infine (ah, i pazienti dei giorni nostri…la crisi sociale), uno dei problemi di fondo: Bianca non può pagarsi le sedute. Formalmente il terapeuta propone una soluzione ad hoc: una terapia “pro bono”, gratuita. Si sono sempre praticate (a Milano uno dei fondatori del Centro Milanese di Psicoanalisi era sempre disposto a condurre un’analisi gratuita); ora il denaro è spesso una degli argomenti di negoziazione nel contratto terapeutico. Ma Bianca sembra non essere in grado di accettare la proposta, teme, come spesso accade in questi casi, di apparire come una “poveretta”. Argomento molto delicato. Credo che ne riparleremo…

 

Adele, per ultima, la nuova “collega”, alla quale Mari chiede una prescrizione farmacologica contro l’insonnia. “Dopo 20-30 anni di psicoanalisi sono stufo di ‘cosa ne pensa’ e ‘cosa direbbe’…mi serve un farmaco, sono solo stanco…”. Anche qui incontriamo una condizione di diversità. Lei è giovane, entusiasta, ha voglia di aiutare, ma anche di imparare, di conoscere, di capire questo collega anziano ed esperto, di sapere cosa sia successo nella sua vita professionale e quali siano state le sue esperienze personali e terapeutiche. Anche lo stile di Adele rappresenta una novità: mostra un’autentica curiosità, mette in scena anche se stessa, chiede scusa se si accorge di aver fatto un intervento che può essere risultato offensivo. Giovanni, dapprima strafottente e svalutante, minimizza, ma sembra a sua volta incuriosito da questo differente interlocutore. Tornerà?

 

Giovanni Mari, raccontando attraverso esempi la sua storia, ci offre un’altra lettura, diversa dalla mia che ho parlato di “diversità”. Riflettendo sulla sua vita, su sé stesso, sul suo lavoro, parla di “intrappolamenti”. Ecco un altro, un diverso punto di vista.


Noi torneremo…

 

 

 

 

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