Leatherface: La recensione del prequel di Non aprite quella porta

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Paolo Nizza

Infanzia, vocazione e prime esperienze del serial killer più terrificante della storia del cinema. Dal 14 settembre, esce nelle sale italiane il prequel di Non aprite quella porta. Tagliente come una motosega, un film che restituisce alla saga creata da Tobe Hooper la forza disturbante ed eversiva della pellicola originale.

Texas 1955: Anche i mostri hanno cominciato da piccoli. Hanno avuto una mamma pazza e spaventosa, una torta di compleanno con tanto di candeline e una motosega in regalo. Senza fronzoli o indugi, sin dalle prime immagini, Leatherface ci trascina in un delirante abisso, nel cuore nero di una famiglia redneck. Qui non siamo nella casa nella prateria, ma in una sporca stamberga in puro stile white trash. Come nelle società tribali assistiamo inermi al rito d’iniziazione di Jedidiah, detto Jed, il più piccolo della maledetta stirpe Swayer. 

La cerimonia di passaggio, il "nuovo inizio" è una liturgia scritta con il sangue e le lame rotanti di una motosega. Ma qualcosa s’inceppa, il rituale viene trasgredito, l'ignominiosa catarsi interrotta. Il male si ferma sulla soglia di un'umanità non ancora del tutto perduta. 

Con un salto temporale ci ritroviamo nel 1965. Jed è finito all'interno di un programma di assistenza per bambini a rischio.  Ragazzi portati via da case in cui criminalità, malattie genetiche o comportamenti sconvenienti erano la norma. Al futuro Leatherface hanno cambiato nome. Non sappiamo più chi sia. E' solo un volto tra una folla di giovani disturbati, un adolescente confuso e violento rinchiuso in ospedale psichiatrico, un teen irrisolto alla ricerca di un'identità.

Ma quando tre ragazzi e un ragazzo, dopo aver rapito una giovane infermiera, scappano dall'istituto, comprendiamo che la fuga si trasformerà in una stagione all'inferno. Un viaggio al termine della notte da cui nascerà il mostro noto con il nome di Leatherface.

Era il 1974 quando uscì Non aprire quella porta. Con un budget di soli 140mila dollari, il film incassò più di trenta milioni soltanto negli Stati Uniti, diventando uno dei film indipendenti di maggior incasso della Storia del Cinema.

La pellicola fu girata in pieno scandalo Watergate. Ed è per questo che l'orrore, il male, la follia risultano generati dall'interno, dalle radici del Paese, senza dimenticare i riferimenti alle terrificanti gesta del serial killer Ed Gein.

Sicché non stupisce che Leatherface si respirino le atmosfere dell'America di Trump. Basti pensare alla madre di Faccia di Cuoio (una Lily Taylor davvero terrificante). Genitrice e castratrice, matriarca di un culto malato, ossessionata dalla paura dell'estraneo, spaventata dall'altro da se. Nessuno può interferire con gli affari di famiglia, tanto meno le forze dell'ordine. Ma in Leatherface la polizia non ha le mani legate. Interpretato da Stephen Dorff, lo sceriffo Hal Hartmann applica l'antica legge del taglione. Occhio per Occhio, figlio per figlio. Uno squilibrato angelo della vendetta dal grilletto facile, in una terra in cui a cantare sono le armi da fuoco, così facili da trovare.

 

Echi di La Rabbia giovane, Stand By Me, Il Giardino delle vergini suicide trasfigurano Leatherface in una sorta di lirica sinfonia dell'orrore. I paesaggi sconfinati del Texas (ma il film è stato girato in Bulgaria) i placidi campi di grano, i cieli tersi fanno da contraltare alle viscere, ai cadaveri decomposti, agli animali putrefatti, ai cartelli con la scritta "Nice to meat you", ai corpi ustionati. 

I registi del film Alexandre Bustillo e Julien Maury (già artefici del sorprendente e raccapricciante Inside) riportano la saga ai tempi del prototipo firmato dal compianto Tobe Hooper. La genesi del Boogeyman che copre il suo volto sfigurato con la pelle delle sue vittime ha davvero la profondità dell'horror politico degli anni 70. La maschera di dolore, odio e follia di Leatherface torna a essere qualcosa di terribile da indossare e da cui è impossibile fuggire. Il codice di un'anima persa, condannata dalla legge del sangue.

Gide avrebbe detto: "Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità."

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