Referendum: astensione, quella parola che nessuno vuole dire

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Il 12 e 13 giugno si vota: decisivo è il raggiungimento del quorum. Ma stavolta anche i partiti contrari ai quesiti non invitano esplicitamente a disertare le urne. Più che una libertà di scelta, sembra un modo per tutelarsi in caso di vittoria dei Sì

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di Filippo Maria Battaglia

Il quorum? “Si vince facile, come a Milano”. Pierluigi Bersani lo ha ripetuto più volte. Secondo lui, ai prossimi quattro referendum del 12 e del 13 giugno andrà a votare almeno il 50% degli elettori. Nessun rischio di invalidazione dei quesiti, come puntualmente accade dal 1995 a questa parte, dunque: per il segretario Pd la consultazione su acqua, nucleare e legittimo impedimento, stavolta, avrà validità.
Bersani non è il solo a crederci: oltre ai partiti che appoggiano apertamente i quesiti (Idv, Sel e lo stesso Pd), nessuna delle altre formazioni, infatti, ha formalmente sposato la linea dell’astensione.
Neppure i più critici (Pdl e Lega, per intenderci), che hanno lasciato libertà di voto: che scegliessero pure gli elettori – scrivono nei comunicati di partito - tra votare sì, votare no o non andare affatto alle urne.
Ma il fronte della partecipazione al voto è in realtà molto meno granitico di quanto si possa immaginare. E più che manifestare una ritrovata partecipazione civica, nasconde forse qualche disagio di troppo.
Disagio che - se a sinistra si tradurrà in qualche stecca nel coro (è il caso del sindaco di Firenze Renzi che ha annunciato un rumorosissimo no per uno dei quesiti sull’acqua) - nel centro e nel centrodestra si tende a fare passare un po’ in secondo piano con l’escamotage della libertà di voto.

Prendiamo il Pdl. Il partito di Berlusconi (sulla cui sorte giudiziaria grava comunque il quesito su ciò che resta del legittimo impedimento) ha detto formalmente che non darà indicazioni di voto al suo elettorato.
Eppure da Sacconi a Matteoli, passando per Meloni, Scajola e Formigoni, ogni volta che un plenipotenziario del partito ha parlato, lo ha fatto per dire che no, che lui ad andare a votare non ci pensa proprio.
Una posizione adombrata dallo stesso premier (“non temo i referendum”) e da altri notabili di partito, come il vicepresidente dei deputati Pdl Bertolini, che ha polemizzato con le esternazioni del presidente della Repubblica, che ha invece annunciato di andare a votare.

Le cose non vanno meglio alla Lega. Anche qui, la linea ufficiale è il liberi tutti: tra estensione e voto - è il messaggio delle camicie verdi - cari elettori, decidete come vi pare.
Ma in realtà l’orientamento di gran parte della base leghista è più propensa al voto (favorevole) che all’astensione, almeno sui primi tre quesiti.
E le stesse uscite dei dirigenti del Carroccio sembrano assecondare quelle propensioni: Bossi ha detto che i quesiti sull’acqua sono attraenti, il governatore Zaia ha dichiarato invece che lui, a votare, ci andrà senz’altro.

Il copione non cambia neppure nel Terzo Polo. L’invito generale è anche qui di votare, ma se si passa allo specifico si scopre che la minoranza dei finiani (quella che fa capo a Ronchi, che per inciso da ministro del governo Berlusconi ha firmato uno dei decreti che si vogliono abrogare) non si recherà alle urne; il vicepresidente Fli, Italo Bocchino, voterà invece a favore del decreto, mentre si asterrà su tutto il resto.
Anche qui però si tratta di pareri personali. Sul fronte moderato, infatti, nessuno sembra sbilanciarsi, ripetendo l’invito, ormai di vent’anni fa, di Craxi che sul referendum elettorale promosso da Segni, chiese agli italiani di andare tutti al mare. Gli elettori non lo accontentarono. E quella consultazione segnò l'inizio della fine della Prima Repubblica.

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