Il caso Weinstein, dalle molestie al movimento femminista MeToo

Mondo

Tiziana Prezzo

Harvey Weinstein (Ansa)
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L'inizio dei problemi per il produttore americano risale al 5 ottobre scorso: da lì una valanga che ha colpito moltissime stelle americane, per arrivare fino al Nobel e al procuratore generale di New York

"Sono cresciuto in un’epoca diversa".  Narrano le cronache che questa fu la prima giustificazione che Harvey Weinstein trovò al suo comportamento all’inizio dello scandalo destinato a travolgerlo.  Per lui, la questione era tutto un problema di "cultura generazionale", da curare al massimo in qualche centro esclusivo che potesse "migliorarlo". Una “cultura generazionale” –  bisogna dare atto a Weinstein di aver avuto ragione su questo –  che il potente produttore di Hollywood ha condiviso con uomini di qualsiasi latitudine e appartenenti a una moltitudine di ambiti differenti (spettacolo, cultura, politica). Per tutti, un unico comune denominatore: quello di ricoprire un ruolo di potere. E se vero che più sei stato potente, più sembra essere destinato ad essere fragoroso lo schianto al suolo,  è anche vero che, in sessantadue anni di vita, Harvey Weinstein, nato a Flushing (New York) sotto il segno dei pesci, di persone che hanno motivi per felicitarsi ora del suo schianto, ne ha collezionate molte: registi, distributori, attori vittime delle sue prevaricazioni e della sua arroganza.

La carriera dell'ex Re Mida di Hollywood

Tutto iniziò quando, ancora sbarbato, col fratello minore Bob decise di comprare a Buffalo un teatro dove si tenevano concerti: i due scelsero, tra una performance e l’altra, di proiettare film.  Con i primi guadagni fondarono una piccola compagnia di distribuzione di film indipendenti, chiamandola Miramax: crasi di Miriam e Max, i nomi dei genitori. Questione di pochi anni e nel 1986 si ritrovarono a Cannes a fare i primi affari nonostante i pochi soldi. Un anno dopo misero le mani su "Pelle alla conquista del mondo", film svedese vincitore della palma d’oro.  Lo stesso film fu poi premiato con due Oscar (miglior attore: Max Von Sidow e miglior film straniero).  "Se non ci fossi avrebbero dovuto inventarmi. Sono l’unica cosa interessante di questo business", ebbe a dire l’ancora giovane Harvey in quei giorni. Per oltre 30 anni quest’uomo, abituato a girare per i festival di mezzo mondo come un leone affamato (di film e non solo), con una sigaretta in una mano e una “diet coke” dall’altra, ha fatto il buono e il cattivo tempo nell’industria cinematografica americana. In qualità di co-fondatore della Miramax prima e della Weinstein Company ha ottenuto, per i film da lui prodotti, trecento nomination agli Oscar, vincendone sessanta. Registi del calibro di Quentin Tarantino e Steven Soderbergh ("Sesso, bugie e videotape" rese la Miramax lo studio indipendente di maggior successo nel 1989) sono una sua creazione.

Il crollo del suo impero

L’inizio della fine risale al 5 ottobre di un anno fa. Il New York Times esce con le prime accuse di molestie. A parlare per prime sono Rose McGowan e Ashley Judd. Passano pochi giorni e il New Yorker rincara la dose, pubblicando un lunghissimo servizio in cui si fanno nuovi nomi e viene aggiunta l’accusa di stupro. In pochi mesi l’ex Re Mida di Hollywood perde tutto, nonostante il suo tentativo di calmare le acque con una riabilitazione in una clinica dell’Arizona specializzata nella cura per "la dipendenza dal sesso": il consiglio di amministrazione della sua azienda lo mette alla porta, l’Academy, dopo averne riconosciuti i meriti professionali per decenni, lo espelle, i figli (5) gli voltano le spalle, la (seconda) moglie lo lascia e chiede il divorzio.  Leggenda vuole che Weinstein abbia ingaggiato anche ex agenti del Mossad israeliano per rintracciare le donne molestate e far pressione su di loro affinché ritirassero le accuse. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha avviato l’iter per ritirargli la Legione d’onore che gli era stata conferita dall’ex capo di Stato Nicolas Sarkozy.

La palla di neve diventa una valanga

Il cosiddetto "caso Weinstein" non poteva però concludersi nella caduta di un dio di Hollywood.  La palla di neve si è trasformata in una valanga che ha prima trascinato nel fango tante stelle americane (una su tutti: il premio Oscar Kevin Spacey, costretto ad abbandonare, tra l’altro, la celebre serie tv House of Cards), ha poi coinvolto lo star system globale, fino ad arrivare a interessare il mondo della politica e della cultura internazionale, sotto la pressione del movimento femminista #MeToo. L’ex ministro della Difesa britannico Michael Fallon è stato costretto alle dimissioni per aver molestato una giornalista radiofonica, Julia Hartley-Brewer, toccandole un ginocchio in un pub nel 2002. La premiazione per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura è stata annullata dopo che si è scoperto che l'erede al trono svedese, Vittoria, sarebbe stata "palpeggiata" dal fotografo Jean-Claude Arnault, che lo scorso novembre è stato accusato da 18 donne di averle aggredite. L'uomo è il marito di Katarina Frostenson, poetessa e membro dell’istituzione che assegna il premio alla letteratura.

Le dimissioni del procuratore di New York

E i colpi di scena non finiscono qui: è passato da essere il grande accusatore ad accusato anche Eric Schneiderman, procuratore generale democratico di New York, fervente sostenitore della causa #MeToo. È stato costretto alle dimissioni dopo essere stato accusato di violenza sessuale da parte di 4 donne. Il giudice ha ammesso i rapporti, ma ha negato di aver agito contro la volontà delle donne.

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