Italiani tra la gente: che cosa rischiano i militari a Herat

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Il cratere che un colpo di mortaio ha lasciato nel tetto di una casa a 400 metri dal Prt di Herat, il 21 settembre scorso
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L'attentato al Prt nell'Ovest dell'Afghanistan era prevedibile. Colpi di mortaio avevano già preso di mira in passato la base che sorge in mezzo alle case: una scelta di grande valore simbolico. Ma i "vicini" possono nascondere molte insidie. FOTO

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di Cristina Bassi


Stare vicino alla gente, correndo qualche rischio, oppure chiudersi in un fortino isolato e quasi inespugnabile? La scelta è simbolica oltre che strategica. I militari italiani a Herat hanno due basi principali. La prima, Camp Arena, è la sede del Regional command west e ospita la maggior parte del contingente. Si trova a circa 15 chilometri dalla città, all’interno dell’aeroporto. La seconda, il Provincial reconstruction team (Prt), è invece nel cuore di Herat, in un complesso di palazzine già esistenti e prese in affitto. Era quasi fisiologico che l’ente che si occupa della ricostruzione, e che anche se gestito da militari lavora in stretto contatto con i civili e con le autorità locali, venisse collocato in mezzo agli afgani. In un quartiere molto popoloso, dove garantirne l’incolumità non è certo facile. Come ha dimostrato l’attentato talebano del 30 maggio che ha fatto cinque feriti tra i nostri connazionali (un capitano è grave) e cinque morti tra i poliziotti afgani.

Il livello di sicurezza delle due basi è inevitabilmente diverso e determinato proprio dalla loro posizione. Camp Arena è circondato da un doppio cordone di sicurezza, afgano e italiano. Per entrare nella base, si percorre un lungo viale e si attraversano due gate. Una macchina non autorizzata non solo non potrebbe accedere, ma verrebbe notata e fermata molto prima di arrivare a una distanza pericolosa. Questo non vuol dire che la base sia considerata tranquilla al cento per cento. Capita infatti, soprattutto di notte, che suoni l’allarme e che tutti debbano correre nei bunker. Molto diverso invece il Prt, in mezzo ad altri edifici da cui la gente entra ed esce di continuo e senza controllo. I palazzi vicini sono a ridosso e anche se per entrare bisogna superare i controlli al cancello, avvicinarsi di sorpresa all’ingresso o al muro perimetrale è abbastanza semplice. L’attentato del 30 maggio infatti è stato combinato. Prima è esplosa l’autobomba al gate, poi gli insorti hanno sparato sugli italiani dalle finestre vicine.

Una vulnerabilità che da sempre preoccupa chi lavora al Prt. “L’attentato del 30 maggio era largamente prevedibile, il Provincial reconstruction team è posizionato malissimo”, sottolinea un militare che vuole rimanere anonimo, ma che ha prestato servizio nella base colpita e che ha partecipato a diverse missioni all’estero. Otto mesi fa ha anche assistito a un altro attacco, fallito, al Prt. Il 21 settembre 2010 quattro colpi di mortaio sono stati sparati in direzione della base italiana. “Uno dei razzi ha centrato una casa a non più di 400 metri dal Prt – racconta il testimone diretto – nella stanza accanto una famiglia stava pranzando, per fortuna nessuno è rimasto ucciso. Ma l’obiettivo eravamo molto probabilmente noi”. Nelle foto arrivate a Sky.it si vedono una casa con il tetto sfondato da un colpo e un cratere largo diversi metri.

“All’interno del Prt controlli e precauzioni funzionano perfettamente, ma come può essere sicura una base da cui vedevo, a pochi metri, case in costruzione, passanti, auto?”, conclude il militare. Lo Stato maggiore della difesa preferisce non fare valutazioni ufficiali sulla sicurezza o meno della sede del Prt. Né sull’opportunità di lasciarla dove si trova ora. Di certo dentro Herat, che  a luglio sarà tra le prime città afgane a passare dalla responsabilità Nato a quella governativa, non è semplice trovare un luogo adatto per una base militare. E garantire l’incolumità di civili e soldati è importante almeno quanto dimostrare in concreto che la città è pronta per la transizione.

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