La storia di Sonia: così le leggi razziali sconvolsero la nostra vita

Cronaca

Sonia Oberdorfer

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Nel libro La Tela di Sonia, a cura di Marta Baiardi, Alessia Cecconi e Silvia Sorri, edito da La Giuntina, le memorie di una maestra ebrea che nel 1938 aveva 20 anni. Il volume presentato in occasione della giornata della memoria. LEGGI L'ESTRATTO

Ma durante quella bella estate, si preparavano avvenimenti che avrebbero sconvolto il mondo e la nostra esistenza e ci avrebbero separati per sempre. Quando arrivò zio Giorgio notammo il suo viso più pensieroso del solito. Alla sera ci parlava delle nubi che andavano addensandosi sull’Europa, della guerra che sembrava inevitabile, della condizione degli Ebrei nei paesi nazisti e della probabilità che in Italia il fascismo assumesse lo stesso atteggiamento nei loro confronti. Io lo consideravo una specie di Cassandra e non volevo credere alle sue parole. Non amavo il fascismo che mi aveva costretta alla divisa, alle adunate, alla retorica, che aveva un volto spavaldo e aggressivo che non mi piaceva, ma nella mia natura c’era il bisogno e l’inclinazione ad avere fede nell’uomo, nella forza della ragione, nella giustizia, nel prevalere del bene sul male. [...]

Alla fine di agosto tornammo a Firenze, e già nel settembre furono promulgate le prime leggi razziali che vennero poi crescendo su se stesse e che sulla nostra famiglia ebbero le seguenti conseguenze pratiche: 

– Papà dovette lasciare il suo lavoro nelle Ferrovie.

– Lea ed io non potemmo più insegnare nelle scuole pubbliche. Lea che aveva vinto un concorso, ricevette proprio in quel settembre un telegramma che le assegnava il posto subordinandolo ad una sua dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica.

– Non ci fu più permesso di avere una domestica ariana e dovemmo licenziare la nostra Dolma, la bella ragazza chioggiotta che ci aiutava nelle faccende domestiche e alla quale eravamo molto affezionati. Ricordo ancora l’ira con cui papà, di ritorno dal lavoro dal quale era stato era stato allontanato, scagliò a terra il distintivo del partito che tutti gli impiegati statali dovevano portare all’occhiello. Eravamo ebrei al cento per cento, nessun merito verso la patria o verso il regime per poter sperare nella “discriminazione”.

Non ci restava che cercarci un qualsiasi lavoro per arginare almeno l’aspetto finanziario della situazione. Non mi sembra che al momento ci preoccupassimo eccessivamente per il futuro, che paventassimo ulteriori inasprimenti delle leggi, né progettassimo di lasciare Firenze o l’Italia. La nostra reazione si concentrò sul presente immediato: io trovai un posto di collaboratrice domestica (allora si diceva “donna di servizio”) presso una famiglia di ebrei; Lea si occupava di un bambino ebreo che accompagnava a scuola e aiutava a fare i compiti; papà fu assunto a Prato, nella ditta di tessuti di Guglielmo Bemporad (cugino di mamma) quale “addetto agli acquisti” E il fatto che avesse acquistato un cavallo che, amante della libertà, cercava di riconquistarla scavalcando Nelle case degli ebrei nelle quali lavoravamo, ci sentimmo sempre estranee nonostante il comune destino. Erano famiglie di commercianti, molto chiuse nel loro clan familiare e che sembravano ignorarci come persone. Io non vedevo l’ora che venisse sera per tornare a casa dove i vincoli che ci univano si erano rafforzati, sia a causa della discriminazione razziale, sia per la malattia di mamma.

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Tratto da La tela di Sonia, pp 218, 12 euro, pubblicato per la Giuntina dall'Istituto storico della Resistenza in Toscana e dalla Fondazione Centro di documentazione storico etnografica della Valdibisenzio (Vaiano, Prato)

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