Shoah, se i carnefici degli ebrei erano anche italiani

Cronaca

Simon Levis Sullam

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Un saggio di Levis Sullam racconta le violenze antisemite perpetrate dai nostri connazionali durante la seconda guerra mondale. Tra queste, l’assalto alla basilica di S. Paolo a Roma a cui parteciparono anche alcuni poliziotti guidati da Koch. ESTRATTO

Nella notte fra il 3 e il 4 febbraio 1944, sotto la guida di Pietro Koch, con l’accordo e il sostegno del questore Pietro Caruso, venne dato l’assalto alla basilica di San Paolo a Roma. Si trattò di un evento in cui la polizia italiana agì nuovamente da protagonista, questa volta però con il concorso di elementi fascisti inquadrati nelle sue file: in questo caso, anzi, i fascisti ebbero funzioni di comando delle operazioni.
L’assalto venne descritto dallo stesso Koch in una relazione al capo della polizia Tamburini: “Erano presenti 80 agenti di ps in divisa con 5 ufficiali e 10 sottufficiali, 18 uomini in borghese al comando del tenente Tela oltre a due commissari di ps, il tutto con 8 automezzi al mio diretto comando”.
Essendo la basilica territorio vaticano, l’operazione richiedeva la massima cautela, ma Koch aveva apparentemente avuto mano libera, concessa al più alto livello: “In una riunione in uno dei locali della questura e alla presenza del sig. Questore stesso avevo dato istruzioni con la massima precisione a tutti e data l’enorme importanza del posto, raccomandazioni soprattutto sul contegno da tenere verso i religiosi”.

Tutto si era svolto molto rapidamente: “Nel giro di pochi minuti e col massimo silenzio tutto l’enorme isolato e i vari corpi di guardia [vaticana] erano in nostro possesso. Mentre gli uomini in gruppi di tre o quattro iniziavano il controllo delle varie camere…”.
L’operazione condusse all’arresto di un generale e altri quattro alti ufficiali, due agenti di polizia, quarantotto giovani renitenti alla leva e nove ebrei. Al termine Koch definì i suoi uomini “perfetti, istancabili e autentici cani da punta”.

Abruzzese, venticinquenne, commerciante con vari precedenti penali, Pietro Koch aveva iniziato la sua militanza salodina a Firenze, al servizio del fascista Mario Carità. Dal gennaio 1944 costituì a Roma un reparto speciale di polizia con l’autorizzazione e forse il sostegno dello stesso capo della polizia Tamburini; più tardi fu ulteriormente inquadrato nel corpo di polizia come commissario ausiliario e infine come questore ausiliario.
Molti uomini al suo seguito venivano proprio dal reparto Carità o dalla XCII Legione della Milizia volontaria di sicurezza nazionale e dalla Toscana; avevano tra i venti e i venticinque anni, vestivano per lo più in borghese ed erano tutti armati, benché solo uno fosse formalmente un funzionario di Pubblica sicurezza. Come per la Banda Carità, anche per la Banda Koch, che dava la caccia soprattutto ad antifascisti, militari “badogliani” e renitenti alla leva, gli ebrei erano, per così dire, un obiettivo collaterale: furono solo quindici tra gli oltre seicento arrestati nell’intero periodo di Salò.
Qui ci troviamo di fronte a una commistione di poliziotti ordinari ed esecutori ideologicamente motivati – non necessariamente dall’antisemitismo – e certo anche bramosi di guadagni o anche solo di usare le armi, cioè i fascisti legati a Koch. La motivazione prima, in questo episodio, fu forse la cattura di militari che avevano “tradito” o avevano evitato la chiamata alla leva: gli ebrei scoperti nel corso dell’operazione potevano rappresentare una sorta di trofeo in più. Oppure le segnalazioni ricevute sul nascondiglio nella basilica di San Paolo avevano subito rivelato la presenza di ebrei nascosti: Koch e i suoi – come “cani da punta”, stando alle parole del fascista promosso questore ausiliario – avevano perciò mirato da principio a più prede.

Non c’erano gerarchie tra le vittime: erano tutti traditori del fascismo o suoi nemici, nemici della nazione. La maggior parte dei poliziotti, invece, eseguiva gli ordini; forse era stata persino offerta loro la possibilità di non partecipare a un’operazione particolarmente delicata e qualcuno aveva rinunciato, temendo o disapprovando ad esempio l’invasione del territorio della Chiesa. Altri non volevano o non potevano rinunciare di fronte agli ordini del questore, o per la sfida e la pressione dei colleghi, oppure perché, appunto, gli ordini erano “quelli”; quelli il lavoro e la routine che si trattasse di criminali, di soldati renitenti o “badogliani”, oppure di ebrei: erano tutti pericolosi e fuorilegge.
In quello stesso febbraio 1944, diramando l’ordinanza del capo della polizia Tamburini, che disponeva lo scioglimento delle comunità ebraiche italiane e il sequestro dei loro beni, proprio il questore di Roma Caruso aveva definito la comunità ebraica: “Nell’attuale momento un’associazione pericolosa per l’ordine e la sicurezza pubblica e contraria agli ordinamenti politici costituiti nello Stato”.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Prima edizione in “Storie” gennaio 2015

Tratto da Simon Levis Sullam,
I carnefici italiani, Feltrinelli, pp. 160, euro 15

Simon Levis Sullam (Venezia, 1974) insegna attualmente Storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è formato e ha svolto attività di ricerca in Italia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ha insegnato a Siena, Berkeley e Oxford. È autore tra l’altro dei volumi Una comunità immaginata. Gli ebrei a Venezia 1900-1938 (Unicopli, 2001), L’archivio antiebraico. Il linguaggio dell’antisemitismo moderno (Laterza, 2008), L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo (Laterza, 2010). È tra i curatori, con Marina Cattaruzza, Marie-Anne Matard-Bonucci, Marcello Flores e Enzo Traverso, della Storia della Shoah (Utet, 2006-2010).

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