Mani Pulite, l'inchiesta che ha cambiato anche la cronaca

Cronaca
(credit: Fotogramma)

Il 17 febbraio 1992, con l'arresto di Mario Chiesa, iniziò Tangentopoli. A vent'anni di distanza, i giornalisti che la raccontarono in prima persona svelano a Sky.it gli aneddoti e i retroscena dell'evento che ha chiuso la prima repubblica

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di Pietro Pruneddu e Roberto Brambilla

La scenografia non è cambiata. Il tram arancione sfreccia ancora in Corso di Porta Vittoria, come succedeva durante i collegamenti in diretta di Paolo Brosio. Nei corridoi del Palazzo di Giustizia, tra un’udienza e l’altra, il fruscio della carta dei quotidiani è stato rimpiazzato dalla silenziosa consultazione dell’iPad. Mani Pulite, la madre di tutte le inchieste, la tempesta giudiziaria che spazzò via la Prima Repubblica, nacque in queste aule. Nel febbraio del 1992, Milano diventò per tutti Tangentopoli. “Se avessi brevettato la parola ora sarei ricco”, spiega con un sorriso Piero Colaprico, firma di Repubblica che vent’anni fa creò il neologismo. “Scrissi un articolo sull’arresto di un funzionario dell’assessorato all’Edilizia che cambiava abito dalla mattina alla sera e concedeva permessi e licenze a pagamento. Mi sembrava una storia alla Walt Disney, l’associazione con Paperopoli fece il resto”. I titolisti dei giornali concorrenti resistettero una settimana, poi la definizione spopolò ovunque. Era l’inizio di una stagione lunga 5 anni, segnata da migliaia di avvisi di garanzia, arresti eccellenti, suicidi e confessioni che hanno sconvolto l’Italia. L’avvocato Vittorio D’Ajello, parlando coi giornalisti fuori da San Vittore a fine febbraio disse: “Ragazzi, scriverete per anni, sta venendo fuori il mondo”. La profezia si avverò.

Le grandi testate non capirono subito la portata dell’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio ed esponente di spicco del Psi milanese. Così il compito di seguire l’inchiesta venne affidato a un gruppo di giovani cronisti che si erano fatti le ossa sull’affaire Duomo Connection, la prima indagine sulle infiltrazioni mafiose a Milano. Due di loro, Piero Colaprico e Paolo Colonnello (all’epoca scriveva per Il Giorno, oggi su La Stampa), si appostarono in macchina davanti a San Vittore per diverse ore. Di Pietro uscì trafelato insieme all’avvocato Nerio Diodà. Alle domande dei due giornalisti cercò di smentire le indiscrezioni, ma lo scoop era servito. Mario Chiesa, “il mariuolo” secondo la definizione di Craxi, aveva iniziato a parlare. “Capimmo subito che camminavamo su un pavimento di assi marce e che dando un colpo sarebbe venuto giù tutto”, spiega Colonnello a Sky.it.

L’inchiesta fu assegnata a un pool di magistrati che Colaprico definisce “perfettamente amalgamati”. La figura chiave diventò il giovane pm Antonio Di Pietro, che ogni mattina arrivava in ufficio alle 6.30 a bordo della sua Tipo bianca. “Lavorava anche la domenica”, racconta Damiano Iovino, cronista dell’Ansa oggi a Panorama. “Era un workaholic. Ma la gente lo adorava, era la variabile impazzita del pool”, conferma Luca Fazzo, cronista di Repubblica ora passato al Giornale”. Il giudizio dei giornalisti è unanime: “Di Pietro era dotato di grande intelligenza e furbizia”, dice Colaprico a Sky.it. “Una delle sue tecniche era la “scenata dell’orologio”. In seguito a una retata, venne in possesso di uno stock di Rolex falsi. Quando interrogava politici o imprenditori di spicco, indossava uno di questi orologi. Se qualcuno si rifiutava di rispondere, Di Pietro si sfilava il Rolex e lo spaccava per terra. La tattica era impressionante, tutti confessavano”.

Craxi accusò i giornalisti di avere rapporti troppo confidenziali coi magistrati. “Stavamo a contatto coi pm 16 ore al giorno, ma bersi un caffè insieme non vuol dire bersi le notizie”, spiega Colonnello. La vera novità di Mani Pulite fu l’enorme mole di procedimenti, interrogatori e arresti. Un lavoro immane, descritto così da Goffredo Buccini, firma del Corriere della Sera: “Di solito il giornalismo è come una stanza in cui tutti vogliono fumare e c’è solo un accendino, cioè soltanto una fonte. Tangentopoli era l’opposto. Gli accendini piovevano dal cielo, ce n’erano anche troppi”. Così i giornalisti, per l’impossibilità di seguire tutti gli eventi e le carte processuali, optarono per una minima condivisione delle notizie più importanti. Marco Brando, inviato dell’Unità, inventò la definizione di “task dei giornalisti”. Era un modo di farsi forza a vicenda, in un momento in cui i politici si sentivano perseguitati dagli articoli sui quotidiani, oltre che dalle vicende giudiziarie. “A volte ci chiamavano offesi per qualcosa che avevamo scritto”, spiega Fazzo a Sky.it. “Ma noi sapevamo di essere nel giusto. E per citare Mao Tze-Tung: la rivoluzione non è un pranzo di gala”.

La differenza rispetto a oggi è soprattutto nei rapporti personali. “C’erano episodi di umanità che si sono persi”, commenta Colaprico. “Una volta eravamo tutti affacciati nel balcone interno di Palazzo di Giustizia. Un imprenditore, appena arrestato, fece un tuffo comico di due metri per non farsi vedere. Non riuscimmo a trattenere le risate”. Altri ricordano Giorgio Bocca che si aggirava in ciabatte dentro la Procura e Di Pietro che rubava il taccuino a Paolo Brosio mentre stava per andare in onda. Fazzo e Colaprico raccontano la caccia al latitante Troielli in Bahrein mentre Buccini volò in trasferta a Santo Domingo per scovare Giovanni Manzi. Ma ci sono anche aneddoti più privati, come le pizzate in gruppo a fine giornata e la cena in cui Emilio Fede si lasciò andare a “battute da bunga-bunga con le mogli dei magistrati”. O ancora una maglietta con la scritta “Seguo anche io l’inchiesta Mani Pulite”, con tutti i soprannomi che giornalisti e pm si erano affibiati a vicenda: Panzer, Duracell, la Iena, Pippo Palestra, Pigiamone, Zanza. Episodi fondamentali per stemperare il clima teso di quegli anni. Forse, come dice Colaprico, è ancora presto per scrivere la storia di Tangentopoli. “Erano altri tempi, andavo in giro con la Vespa e con un enorme telefono cellulare di prima generazione”, racconta Iovino. “Era una faticaccia, però avevamo la sensazione di essere spettatori privilegiati di un evento che avrebbe cambiato il paese”.

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